Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Pietro Canisio a cura di Ermes Dovico
CINA

Il "conclave rosso" del regime

Contemporaneamente al Conclave, nella Repubblica Popolare Cinese l’Assemblea Nazionale del Popolo (Anp), ha ratificato le nomine del nuovo presidente, Xi Jinping e del nuovo primo ministro, Li Keqiang. In veste di delegati anche i vescovi della "chiesa patriottica".

Esteri 19_03_2013
Cina

Contemporaneamente al Conclave, nella Repubblica Popolare Cinese, si è svolto un vero e proprio “conclave rosso”, l’Assemblea Nazionale del Popolo (Anp), che ha ratificato le nomine del nuovo presidente, Xi Jinping e del nuovo primo ministro, Li Keqiang. Erano già stati scelti a novembre dal Congresso del Partito Comunista Cinese, dopo l’epurazione degli elementi più scomodi, quale il neo-maoista e giustizialista Bo Xilai.

Di un vero e proprio “conclave” si è trattato, vista la presenza, in veste di delegati, di vescovi della cosiddetta “chiesa patriottica”, la Chiesa parallela riconosciuta dal Partito Comunista e non dalla Santa Sede, volta a convogliare i cattolici cinesi sotto l’ala di un regime che tuttora si professa apertamente marxista, ateo e materialista.

Il regime di Pechino, dopo aver perseguitato tutte le religioni, è passato negli ultimi decenni a una strategia più indiretta: il controllo dall’interno, tramite la nomina politica dei religiosi. Questo avviene per i cattolici, così come per i buddisti, i taoisti, i musulmani e i protestanti. Le altre religioni sono bandite. Le chiese non riconosciute sono perseguitate.

Secondo le stime, la chiesa “patriottica”, riconosciuta dal regime, è in netta minoranza: vi aderiscono dai 5 ai 6 milioni di fedeli. Mentre altri 10 milioni (il doppio) si riconoscono nella “chiesa sotterranea”, bandita da Pechino perché fedele alla Santa Sede.
Su questo fronte non ci sono cambiamenti in vista. Lo si deduce proprio dalle nomine politiche dei vescovi “patrioti”. Alla vigilia dei lavori dell’organo consultivo, Huang Bingzhang, di Shantou, ordinato per volere di Pechino e scomunicato dal Vaticano nel 2011, è stato nuovamente nominato membro dell’Anp.

Al secondo organismo più importante del legislativo di Pechino, la Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (Ccppc), sono stati nominati altri tre vescovi “patrioti”: Ma Yinglin di Kunming, presidente della “Conferenza episcopale cinese” (non riconosciuta dalla Santa Sede); Zhan Silu di Mindong, vicepresidente della stessa Conferenza e Lei Shiyin di Leshan, vicepresidente dell’Associazione Patriottica (anch’egli scomunicato nel 2011). Ai quali si aggiungono altri sei cattolici nel settore religioso della Ccppc: monsignor Li Shan, arcivescovo di Pechino; Shen Bin di Haimen; Jin Luxian di Shanghai; Fan Xinyao di Linyi; Meng Qinglu di Hohhot; il laico Liu Yuanlong.

Chi dissente, invece, viene perseguitato. Il vescovo ausiliario di Shanghai, Taddeo Ma Daqin, lo scorso dicembre è stato privato del suo titolo e costretto agli arresti domiciliari. La sua colpa? Aver rassegnato le dimissioni dall’Associazione Patriottica e aver rifiutato di condividere il calice della comunione con un vescovo scomunicato dalla Santa Sede.
Sono atti interpretati dal regime come una grave insubordinazione al proprio potere.

La Chiesa viene perseguitata o tenuta sotto stretto controllo anche perché si oppone alla brutale pianificazione familiare di Pechino: la politica del figlio unico. Compiendo un gesto di parziale rottura col passato, la nuova classe dirigente cinese ha appena archiviato la Commissione per la Pianificazione Familiare, responsabile, secondo i dati forniti dallo stesso regime di Pechino, di 336 milioni di aborti e della sterilizzazione (“volontaria” o coercitiva) di circa 200 milioni di uomini e 400 milioni di donne dal 1978 a oggi. Questa riforma è, per ora, solo una scelta cosmetica: anche se salta la Commissione, rimane il divieto di avere più di un figlio.

La Pianificazione Familiare era nel mirino dell’opinione pubblica, locale oltre che internazionale. E si stavano moltiplicando i casi “imbarazzanti” per il regime di Pechino. Come quello di una ragazza, Feng Jianmei, costretta ad abortire al settimo mese dopo che le autorità locali non erano riuscite a riscuotere dalla sua famiglia la multa proibitiva che le era stata comminata per la violazione della legge sul figlio unico.

Le foto della donna assieme al feto insanguinato appena ucciso, avevano fatto il giro del mondo e causato una prima protesta su Internet, alla quale era seguito un trasferimento dei funzionari locali. E’ un difensore delle vittime della politica del figlio unico anche l’avvocato e attivista cieco Chen Guangcheng, riuscito a fuggire negli Usa dopo una clamorosa evasione dai suoi arresti domiciliari e dopo un lungo braccio di ferro diplomatico fra Pechino e Washington.

Anche il suo esempio ha contribuito a far luce sui metodi brutali della pianificazione familiare cinese. Oltre agli scandali, conta la demografia. La popolazione cinese invecchia, mettendo a rischio la crescita dell’economia, primo obiettivo di questa, come della precedente, classe dirigente.
Di qui la necessità di una parziale liberalizzazione. Probabilmente, stando a fonti governative, si arriverà a permettere due figli per ogni coppia dal 2015. E forse si giungerà alla libertà di procreazione solo dopo il 2020. Forse.

In ogni caso, Pechino ha fatto sapere chiaramente che non vuole alcun “suggerimento” dall’esterno. Al momento dell’elezione di Papa Francesco, il regime cinese ha subito chiesto una sua “non-interferenza negli affari interni della Cina, con il pretesto della religione”.