Il centrodestra diviso alimenta i sogni dei tecnocrati
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A neanche tre mesi dalle elezioni europee aumentano gli attriti tra Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega. E nell’interventismo di Gentiloni c’è chi vede il disegno dell’establishment europeo di un nuovo governo tecnico di solidarietà nazionale.
Prima delle elezioni europee del giugno scorso il ritornello dei commentatori politici era il seguente: si vota con il proporzionale, quindi i partiti sono costretti a enfatizzare le differenze tra di loro, anche se fanno parte della stessa coalizione. In altre parole, nella corsa per un seggio a Strasburgo contano le singole forze politiche, che coltivano i loro cavalli di battaglia e si ridanno appuntamento con gli alleati a urne chiuse, quando tornano a ragionare come parti di uno schieramento. A oltre due mesi da quell’appuntamento elettorale, i partiti continuano stranamente a ragionare come se non esistessero le coalizioni. Cercano visibilità, coltivano i loro elettorati e, soprattutto, alimentano crescenti rivalità con i loro compagni di viaggio.
La tregua post-elettorale non s’intravede, anzi aumentano gli elementi di attrito, soprattutto nella coalizione di governo, con un partito (Forza Italia) che sembra ascoltare più le sirene europee di Ursula von der Leyen che quelle interne meloniane, e un altro (Lega) che con le sue ali estreme (generale Vannacci) già lavora per uno scenario istituzionale diverso da quello attuale. In mezzo c’è il partito di maggioranza relativa (Fratelli d’Italia) gestito come un’impresa familiare dal premier, da sua sorella e da pochi selezionatissimi sodali.
Non è solo un’impressione. Basta mettere in fila le dichiarazioni degli esponenti del centrodestra su temi altamente sensibili come quelli che hanno animato il dibattito pubblico degli ultimi due mesi per capire che la coalizione di governo non è unita neppure nella gestione del potere. Due esempi lampanti: prima della pausa estiva avrebbe potuto chiudere la partita delle nomine Rai e invece ha dovuto rinviare tutto a settembre perché la Lega chiede una figura apicale di peso per un suo esponente e Fratelli d’Italia vorrebbe invece occupare tutti i posti chiave, lasciando a Forza Italia la presidenza della Tv di Stato, promessa a Simona Agnes. Il poltronificio Rai è dunque uno degli attuali terreni di scontro. Poi ci sono le partite ancora più importanti, come l’autonomia differenziata, sulla quale il Carroccio si gioca la sua sopravvivenza mentre Forza Italia sembra tiepidissima. Su questo versante il referendum sull’autonomia somiglia sempre di più a una bomba a orologeria. Il governo sarà compatto nelle indicazioni di voto? Chissà.
E sulla cittadinanza? Nel governo si registrano almeno tre posizioni: gli azzurri aprono allo ius scholae e alle soluzioni avanzate dalla sinistra, anche per compiacere i vertici europei, la Lega chiude a ipotesi del genere, Fratelli d’Italia esprime contrarietà ma non rifiuta un confronto sul tema.
Guerre fratricide anche sulle candidature per le regionali. Giorgia Meloni è disposta ad accontentare Forza Italia e Lega sulla Liguria, rinunciando a candidare un suo uomo, ma in cambio chiede il Veneto, che andrà alle urne l’anno prossimo per il dopo-Zaia. La Lega, ovviamente, non può accettare di perdere una delle sue roccaforti e quindi farà muro fino alla fine, con rischi di scissione e di corse solitarie.
E che dire della manovra finanziaria? Perfino tra esponenti leghisti (Giorgetti contro Salvini) si polemizza su pensioni, canone Rai, riforma del fisco perché la coperta è troppo corta e bisogna tagliare il più possibile bonus e sussidi improduttivi per evitare altri rimbrotti da Bruxelles. Ogni partito deve compiacere i suoi elettori e alcune categorie potrebbero inalberarsi. I dossier bollenti come quello dei balneari non fanno dormire sonni tranquilli all’esecutivo.
Con queste premesse è facile prevedere una navigazione tempestosa per il governo Meloni, sul quale potrebbero altresì abbattersi le tempeste derivanti dalle crisi internazionali e dall’esito del voto di novembre per le presidenziali americane.
Forse punta proprio su questo l’establishment europeo, che ha mandato in campo nelle ultime settimane il commissario uscente agli Affari economici, Paolo Gentiloni, quantomai loquace. Da lui sono arrivate critiche alle parole del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che aveva definito la gestione del Pnrr «di stampo sovietico», e apprezzamenti per il ruolo che l’Unione europea può svolgere nel valorizzare le politiche dei singoli Stati. Inoltre, due giorni fa, sempre Gentiloni ha tuonato contro i rischi del web e dei social, che possono alimentare odio e paure: un richiamo, quindi, al rispetto delle regole, all’ortodossia del pensiero unico europeo, senza sbandamenti.
Più di qualcuno ha visto nell’“interventismo” gentiloniano un segnale molto chiaro di risveglio dei cosiddetti poteri forti, che sembravano appiattiti per convenienza sul governo Meloni e magari ora cominciano a sognare un nuovo governo tecnico di solidarietà nazionale o di emergenza finanziaria in grado di scomporre gli attuali schieramenti, già fragili come detto (il centrosinistra non se la passa meglio degli avversari), per ricomporli su basi nuove. Gentiloni può essere il braccio armato di questo disegno, con il suo approccio duttile e moderato. Un ritorno di Mario Draghi non appare all’orizzonte, ma certo è che una maggioranza di centrodestra così tanto divisa fa il gioco di iniziative tecnocratiche sempre in agguato.