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LO STUDIO

Idrossiclorochina salvavita anche in pazienti gravi

Uno studio americano mostra l'utilizzo sorprendente dell'idrossiclorochina anche nelle terapie intensive con pazienti gravi a differenza di quanto sempre ritenuto. Il farmaco, somministrato per brevi periodi ad alte dosi, è in grado di aumentare la sopravvivenza in modo significativo. Eppure è stato criminalizzato da quando Trump ne ha tessuto le lodi. 

Attualità 13_06_2021

Da quando Donald Trump nell’aprile del 2020 fece un apprezzamento pubblico sull’utilità del farmaco antimalarico e anti lupus, sull’idrossiclorochina (HCQ) per sconfiggere le nefaste conseguenze del COVID-19 si scatenò un assalto sia “scientifico” che mediatico a dimostrare che questa sostanza non solo non era utile per curare la malattia da Coronavirus ma addirittura era potenzialmente mortale, in quanto allungando la ripolarizzazione ventricolare poteva portare a pericolose aritmie e a morte improvvisa. Uscirono numerosi lavori, anche inventati e poi ritrattati (come il lavoro basato su dati Sfingosphere, pubblicato e poi ritirato su Lancet), contro questo farmaco i cui effetti sono noti da decenni ed il cui costo è estremamente ridotto.

I dati riportati precedentemente ci hanno dimostrato che la HCQ non è utile per prevenire la malattia da COVID (d’altro canto non è un vaccino) e se somministrata in ospedale in persone con malattia avanzata non solo non è efficace ma è dannosa. A seguito di questi lavori scientifici o pseudoscientifici fu bloccato l’impiego della HCQ non solo in ospedale ma anche nei pazienti a domicilio per le cure precoci, che ancora oggi nella nostra amata Italia si basano sul caposaldo derivato da AIFA e dalle Linee guida ministeriali: “Tachipirina e vigile attesa”. Un anno e mezzo di decessi, di malattia vascolare da COVID, ma il protocollo, chiamiamolo terapeutico, è rimasto quello saldo e granitico come una pietra tombale.

È ora in pre-print un nuovo lavoro scientifico (LG Smith et al. derivato da dati raccolti in modo osservazionale e retrospettivo da una casistica di 255 pazienti trattati presso il Saint Barnabas Medical Center in Livingston, New Jersey, USA).

Si basa su pazienti ammalatisi di COVID-19 e ricoverati in terapia intensiva dove sono stati sottoposti a ventilazione meccanica. Quindi condizioni estremamente gravi, in fasi avanzate di malattia. Ebbene: il primo dato è che il 78.2% dei pazienti intubati è deceduto. Questo dato impressionante è in accordo con altre segnalazioni in letteratura purtroppo. Fattori che indicavano una prognosi peggiore furono sicuramente l’età più avanzata, i più elevati valori di ferritina, D-dimero e LDH a dimostrazione di un coinvolgimento multiorgano e di reazione trombotica generalizzata.

Da un punto di vista terapeutico se si confrontano i 54 pazienti sopravissuti con i 201 deceduti, mentre sostanze come il cortisone e il tocilizumab avevano avuto uno scarso impatto, la maggiore incidenza di sopravissuti si è avuta a seguito di impiego di HCQ da sola o associata ad Azitromicina (AZ), utilizzate a dosi elevate (> 80 mg/Kg per HCQ e >1000 mg/die per AZ). Dal punto di vista statistico il solo impiego di HCQ si accompagnava ad un ottimo OR (Odds ratio, indice che misura il grado di correlazione fra 2 fattori) di 2.46.

Associando le 2 sostanze, come è avvenuto in 37 pazienti, ne sono sopravvissuti 18 (48.6%). Un rischio di mortalità con l’associazione di 3.26 volte più ridotta ad un’analisi multivariata proporziona cox hazard regression. Anche il supposto effetto negativo di allungamento del QTc a seguito della somministrazione di elevate dosi di HCQ da sola o associata a AZ si è dimostrato non essere assolutamente un problema significativo in quanto non è stata dimostrata alcuna correlazione (l’80% dei pazienti venne monitorato con ECG registrati) fra dosi cumulative ed incrementali di HCQ e allungamento del QTc. Non sono state registrate inoltre aritmie significative e/o mortali.

In percentuale l’incremento di sopravvivenza per i pazienti trattati con la combinazione è risultato essere del 136%.

I pazienti più magri inoltre hanno avuto l’efficacia migliore confermando un rapporto dose/distribuzione/efficacia. Un altro dato importante da sottolineare è la correlazione esistente fra miglioramento clinico e riduzione della lunghezza del QTc, indipendentemente dalle dosi di HCQ. A dimostrazione che l’infezione di per sé può portare ad allungamento del QTc (come dimostrato in precedenti lavori scientifici) più che il farmaco HCQ. Queste importanti osservazioni indicano che molti studi precedenti, negativi per la sicurezza del farmaco, che avevano utilizzato HCQ anche a dosi molto più alte di quella comunemente utilizzate per il COVID andrebbero rivalutati alla luce del rapporto dose/peso corporeo/livelli plasmatici del farmaco/QTc.

In conclusione il lavoro qui riportato, pur non essendo prospettico e controllato, evidenzia come anche in una tipologia di pazienti particolarmente gravi, intubati in terapia intensiva, a differenza di quanto fin qui riportato, il farmaco HCQ somministrato per brevi periodi ad alte dosi, soprattutto se associato all’antibiotico AZ sia in grado di aumentare la sopravvivenza in modo significativo consentendo una percentuale di dimissione intorno al 50% a fronte di una mortalità in questi pazienti dell'80%.

Idrossiclorochina quindi efficace contro il Coronavirus non solo in terapia precoce domiciliare ma anche in casi più severi purché a dosi adeguate. Se si vuole sconfiggere questa malattia virale dobbiamo avere altre armi oltre ai vaccini e la vecchia HCQ si è dimostrata un’arma sicura ed efficace in vari stadi della patologia.

* Medico, autore di un significativo studio osservazionale sull'utilizzo dell'idrossiclorochina in fase precoce