I vescovi e le aree interne del Paese
L'episcopato italiano è allarmato dal "suicidio assistito": quello delle aree soggette a spopolamento, non quello degli uomini su cui si registra un silenzio assordante.

Il 25 agosto scorso numerosi vescovi italiani si sono riuniti a Benevento, ospiti del vescovo di questa diocesi, per valutare le linee del governo Meloni sullo sviluppo delle aree interne del Paese, gravate da spopolamento e abbandono. Ne è uscita una Lettera aperta al governo e al parlamento che riassume le conclusioni dell’incontro e le prospettive proposte.
L’iniziativa e il documento finale hanno tutte le sembianze di un intervento politico. Il piano governativo viene bocciato e gli si rimprovera di destinare quelle aree ad un “suicidio assistito”, accompagnandole ad una “morte felice” e guardandole “con lo stesso spirito con cui ci si pone al capezzale di un morente”. A questo proposito si aprono alcune considerazioni generali.
Nello stesso periodo in cui i vescovi si sono riuniti a Benevento, in Italia era esploso il confronto sul ddl sul suicidio assistito, non quello delle aree interne del Paese ma quello degli esseri umani. Su questo argomento i vescovi italiani non hanno promosso nessun loro incontro e non hanno inviato nessuna Lettera aperta al governo e al parlamento. Eppure, la differenza di importanza delle due sfide è sotto gli occhi di tutti. Inoltre, va osservato che le firme sotto la Lettera aperta suddetta sono moltissime, con la presenza di tutti i vescovi più importanti, dal vicario di Roma ai vescovi di Torino, Napoli, Cagliari e così via. Naturalmente c’è anche la firma del cardinale Zuppi. Una straordinaria mobilitazione, quindi e, senza togliere nulla all’importanza del tema affrontato, ci si chiede perché non sia stata messa in moto anche per l’altro tema sicuramente più importante.
La Lettera fa delle proposte che si situano su due livelli espressivi. Il primo è quello di una tipica retorica politico/curiale per dire tutto e niente: «sostenere le buone prassi e le risorse sul campo, valorizzando un sistema di competenze convergenti, utilizzate non più per marcare differenze, ma per accorciare le distanze tra le diverse realtà nel Paese»; «avviare un percorso plurale e condiviso in cui gli attori contribuiscano a costruire partecipazione e confronto così da generare un ripopolamento delle idee ancor prima di quello demografico». Il secondo è quello di un tecnicismo poco in sintonia con il ruolo dei vescovi: «si favoriscano esperienze di rigenerazione coerenti con le originalità locali e in grado di rilanciare l’identità rispetto alla frammentazione sociale; s’incoraggi il controesodo con incentivi economici e riduzione delle imposte, soluzioni di smart working e co working, innovazione agricola, turismo sostenibile, valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, piani specifici di trasporto, recupero dei borghi abbandonati, co-housing, estensione della banda larga, servizi sanitari di comunità, telemedicina».
Questa Lettera è una nuova dimostrazione di come l’episcopato italiano fatichi a sintonizzarsi con il ruolo che compete al vescovo in quanto vescovo.