I presunti privilegi di chi insegna religione
L'ora di religione e i suoi docenti sono sempre nell'occhio del ciclone. L'ultimo pretesto, in ordine di tempo, riguarda la loro retribuzione. Ma sono uguali o diversi dagli altri dipendenti dello Stato?
Oggi i motivi di attacco al Signore e alla sua Chiesa non solo sono moltissimi, ma si ammantano spesso di ragioni fasulle, capaci però di ingannare i semplici.
Un caso esemplare è quello della questione che si scatena periodicamente intorno all'insegnamento della Religione Cattolica nelle scuole. Non solo abbiamo avuto una brutta esternazione del Ministro della Pubblica Istruzione che chiedeva l'abolizione della qualifica di «cattolica» dalla materia in oggetto, ma, pochissimo tempo fa, un giornalista attaccava la Chiesa perché l'Ordinario avrebbe negato l'idoneità ad una insegnante di religione che - sono sue parole - «non va a Messa e per di più convive». Abbiamo ricordato: «Che ne diremmo di un docente di “Italiano” che parlasse in dialetto? O di un docente di “Matematica” che non sapesse far di conto?
Al docente si chiede coerenza tra quanto insegna e quanto vive, perché la religione cattolica in chi la professa - e il Docente si suppone che lo sia - non può prescindere dalla vita della persona.
L'allievo, invece, può accettare o rifiutare quella fede che gli viene presentata non come proposta di fede, ma come animatrice della sua cultura, o meglio della cultura del popolo in cui vive.»
Un secondo esempio è il recente attacco agli insegnanti di religione perché il MIUR ha richiesto gli adempimenti retributivi, derivanti dal CCNL (il contratto nazionale, per intenderci, che riguarda tutti i lavoratori) e che sarebbero interpretati come un favore (e quindi un privilegio) fatto alla Chiesa. Non entro certo nel merito delle questioni tecniche, certo quello che sconcerta è il continuo stillicidio di notizie, nella speranza (noi vorremmo che fosse illusione) che in questo modo i tanti giovani che si accostano alla quasi ormai unica forma di conoscenza del fenomeno cristiano, se ne disamorino, rinunciando a tale insegnamento. Ed ecco come su CulturaCattolica.it Nicola Incampo spiega la questione sollevata dall'articolista dell'Espresso: «Veniamo alla questione degli insegnanti di religione cattolica. Innanzitutto è da anni che mostriamo che a scuola non si fa “catechesi” ma un insegnamento “culturale”.» Basta leggere le indicazioni nazionali per l'IRC che via via sono state aggiornate nelle riforme scolastiche. È falso affermare che s'insegna la “dottrina”, nel senso della catechesi.
Non si tratta di un privilegio concesso alle gerarchie vaticane con la cessione di sovranità sulle assunzioni pubbliche né di una benevola concessione, ma di un diritto che compete ad ogni lavoratore che abbia le carte in regola per essere assunto ed entrare nell'organico di una qualsiasi azienda.
Ogni assunzione da parte dello Stato soggiace a delle precise condizioni e requisiti stabiliti dalla Costituzione.
È importante come docenti avere il titolo di studio corrispondente alla disciplina di insegnamento. E il docente di religione l'ha acquisita con regolari studi universitari e con il conseguimento del titolo accademico.
In Italia non esistono facoltà teologiche statali e quindi lo Stato riconosce i titoli conseguiti presso le facoltà teologiche ecclesiastiche e relative affiliazioni, quali sono gli Istituti Superiori di Scienze Religiose. Questo inoltre garantisce la laicità dello Stato Italiano, che se formasse direttamente i docenti, necessariamente diventerebbe uno Stato confessionale.
È necessario superare un concorso reclamato dalla stessa Costituzione italiana per essere immessi in ruolo.
Nel concorso che è sempre per insegnanti di una disciplina per la quale lo Stato non ha specifiche cattedre universitarie, si richiede, come condizione, il decreto di idoneità dell'autorità ecclesiastica. È evidente che la professionalità venga accertata e garantita da un pronunciamento dell'autorità che svolge il compito di assicurare tale preparazione. È qui che l'atipicità di tale insegnamento ha la sua radice ed espressione.
A molti è sembrata un'ingerenza nelle cose della res pubblica. Ma chi è che può garantire che una determinata persona è veramente competente se non la Chiesa che si qualifica come cattolica e detiene tale prerogativa? Chi è più onesto, chi dichiara apertamente la propria identità, e liberamente si sottopone ad una libera scelta delle famiglie e degli alunni o chi senza dichiararla vuole far passare subdolamente certe ideologie?
Certo può suscitare qualche perplessità il fatto che la Chiesa dichiari competente solo chi si comporta secondo i principi di quella fede - il che è appunto uno dei criteri per dichiarare l'idoneità del docente - ma gli è che nel cattolicesimo conoscenza e vita sono inscindibili. In realtà, in ogni campo educativo è la stessa cosa. Non è fondamentale che l'educatore, l'insegnante sia coerente con ciò che insegna, l'emergenza educativa non ci sta richiamando continuamente che i ragazzi non si fidano di quegli adulti che dicono e non fanno?
Chiarito allora che l'IRC deve far parte del curriculum di studi degli alunni della scuola italiana, tenendo presente che l'IRC è un insegnamento atipico sia quanto a disciplina che quanto alle caratteristiche dello stesso docente, che resta sempre e principalmente un docente della scuola italiana, soggetto a tutti i diritti e doveri dei dipendenti dello Stato italiano, quindi anche per quanto concerne la retribuzione, c'è da chiedersi: ma perché tanto clamore e tanto stracciar di vesti per un problema - quale la retribuzione - che compete a questi docenti come a tutti i dipendenti dello Stato?
Perché, tanto per concludere, si ricordi e lo tenga ben presente l'articolista dell'Espresso, tanto clamore fa l'essere retribuito come il Contratto di lavoro prevede?»
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