Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Colombano a cura di Ermes Dovico

IL PUNTO

I nervi tesi dei soldati in guerra

La strage nella provincia afghana di Kandahar solleva il problema delle ricadute psicologiche del conflitto sulla vita e sulla mente dei militari.

Attualità 15_03_2012
Usa Army

La strage compiuta nel distretto afghano di Panjiwayi, nella provincia “calda” di Kandahar, da un sergente dell’esercito statunitense ha riportato alla ribalta il tema dei traumi da combattimento e del disordine stress post traumatico (Psd). Problemi psichici che negli stati Uniti sono tornati a colpire i veterani con un’incidenza simile a quelli che colpirono i reduci dal Vietnam. In undici anni di guerre in Iraq e Afghanistan a circa 250 mila soldati è stato diagnosticato il Psd sui oltre 2 milioni di militari che hanno prestato servizio nei teatri bellici del dopo 11 settembre.

Un numero rilevante se si considera che in entrambi i conflitti i caduti americani sono meno di 6.500 ma che non significa certo che un quarto di milione di veterani sono diventati dei criminali. Chi soffre di questo disturbo, cioè circa il 10 per cento dei reduci molti dei quali rimasti feriti in guerra, fatica a reintegrarsi nella vita civile e a trovarsi un lavoro una volta congedato (il 12 per cento), accusa stati d’ansia, tachicardia, stati depressivi che vengono curati con psicofarmaci, quasi sempre gli stessi che, assunti in dosi massicce, alcuni di essi utilizzano per suicidarsi.

In molti casi nelle famiglie dei reduci aumentano le violenze domestiche e i divorzi. Se in Vietnam i militari erano per lo più di leva, quindi poco avvezzi alle durezze della guerra, in Iraq e Afghanistan hanno operato solo professionisti ma fra questi vi sono stati molti riservisti e “soldati della domenica” appartenenti alla Guardia Nazionale. Il Vietnam e le operazioni post 11 settembre 2001 hanno però un punto in comune: si tratta di conflitti anti-insurrezionali nei quali il nemico si nasconde spesso tra i civili, anzi, è un civile che si fa scudo della popolazione e ottiene da essa appoggi e coperture.

La Guerra del Golfo del 1991 e i brevi conflitti in Bosnia, Kosovo e Libia non hanno prodotto casi significativi di Psd perché sono stati guerre-lampo condotte essenzialmente delle forze aeree. Conflitti convenzionali conclusisi con un vincitore e uno sconfitto sul campo di battaglia. Le lunghe campagne antiguerriglia costituiscono invece le guerre più sporche caratterizzate dall’insicurezza di non potersi fidare di nessuno. Neppure di donne e bambini spesso utilizzati dagli insorti per trasportare esplosivi o per piazzare ordigni lungo le strade, né dei militari afghani che sempre più spesso rivoltano le armi contro i loro alleati occidentali. Basti pensare che dei 68 militari alleati morti dall’inizio di quest’anno in Afghanistan almeno una dozzina sono stati uccisi dalle truppe afghane.
Un contesto nel quale è difficile non perdere l’equilibrio specie per i soldati statunitensi che svolgono circa l’80 per cento delle operazioni da combattimento in Afghanistan dove prestano servizio per turni di un anno contro i sei mesi degli italiani e di altri contingenti alleati. A queste considerazioni si deve poi aggiungere che dopo l’annuncio di Casa Bianca e Nato che il ritiro dall’Afghanistan si completerà nel 2014, i soldati combattono e muoiono non per la vittoria, ma solo per potersi ritirare tra qualche anno. Una decisione che farà forse piacere all’opinione pubblica e all’elettorato occidentale (che in stragrande maggioranza sulle due sponde dell’Atlantico vorrebbe un ritiro rapido dall’Afghanistan) ma che risulta devastante per il morale dei combattenti, non a torto frustrati e incapaci di accettare di morire in un conflitto che non contempla più l’opzione della vittoria.

Non c’è da stupirsi se i più importanti e noti casi di crimini ed eccidi compiuti contro i civili afghani e iracheni siamo stati compiuti da militari americani anche se non sono mancate in questi anni incriminazioni per soldati britannici, australiani e canadesi: non a caso i contingenti maggiormente esposti al nemico perché schierati nelle province afghane più calde di Helmand, Kandahar e Uruzgan. In realtà i casi di Psd riguardano in misura minore anche gli altri eserciti incluso quello italiani che negli ultimi dieci anni ha combattuto, a volte anche duramente, dalle battaglie dei ponti di Nassiryah a quelle combattute nel Gulistan o a Bala Murghab, in Afghanistan. Mentre negli Stati Uniti i dati sull’incidenza del Psd vengono resi noti e dibattuti pubblicamente in Italia il problema rimane sotto traccia, appena sussurrato negli ambienti militari che non hanno mai rivelato dati in proposito.    
Da quanto si apprende il sergente che ha compiuto la strage in due villaggi del distretto di Pajiwayi presenta tutte le caratteristiche di chi ha subito traumi psichici. Trentotto anni, sposato con due figli, aveva trascorso tre anni in Iraq dove aveva riportato un trauma cranico in seguito a un incidente stradale ed era al suo primo turno di missione in Afghanistan. Ciò nonostante ci sono molte perplessità sulla versione dei fatti fornita dal comando Usa/Nato di Kabul che sembra puntare sulla storia del “soldato impazzito” (che ora rischia ergastolo o pena di morte) forse per coprire un’altra verità più scomoda.

Secondo la tesi ufficiale il sergente avrebbe fatto tutto da solo. Uscito in piena notte e di nascosto dalla base è penetrato in quattro case in due villaggi diversi uccidendo 16 civili e ferendone molti altri. Ma la storia non regge sia perché dalle basi militari in zona di guerra non si esce e non si entra facilmente, sia perché i primi spari del “sergente impazzito” avrebbero dovuto attivare i reparti americani presenti nella base situata a poche centinaia di metri dai luoghi dell’eccidio. Invece il “pazzo” ha avuto tutto il tempo di condurre in porto il suo gesto che potrebbe non essere così “folle” considerato che ha colpito quattro edifici diversi scelti non certo a caso in due villaggi vicini. Tutti da solo?

Più plausibile risulta la versione fornita da testimoni afghani e da un reporter della France Presse secondo i quali sparare ai civili sarebbe stato un gruppo di militari americani. A smentire l’ipotesi del raptus improvviso di un solo uomo sono scesi in campo anche un centinaio di leader tribali e cittadini del distretto di Panjwaj, dove prima degli statunitensi anche i militari canadesi hanno subito forti perdite e sostenuto numerosi scontri. In una conferenza stampa di cui ha dato notizia l'agenzia Ap, i capi locali hanno riferito che venerdì scorso "una bomba era esplosa al passaggio di un mezzo americano nella zona di Zangabad del distretto di Panjwai".

Secondo il capo tribù Haji Muhammad Shah Khan “più tardi i soldati americani hanno radunato alcune persone del posto accusandole di aver messo la bomba: dissero che si sarebbero vendicati sulle donne e i bambini della zona". Certo i capi tribù di quell’area sono da sempre in stretti rapporti con i talebani e le loro dichiarazioni vanno prese con le molle ma non si può escludere che Washington punti ad addossare le colpe a “una scheggia impazzita” per nascondere le responsabilità di un intero reparto esasperato dagli attacchi nemici effettuati con l’appoggio attivo o passivo dei civili. Una di rappresaglia che certo non fa onore alle forze armate statunitensi ma non certo inconsueta in una guerra sporca come quella anti-insurrezionale.