I misteri dei comunisti
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Da Gino Paoli a Pier Paolo Pasolini a Francesco De Gregori: tutte persone con familiari vittime dei comunisti e che pure sono diventati… comunisti.

Un comunista convinto come Gino Paoli ha rivelato tempo fa (era il 2005) che alcuni membri della sua famiglia, istriani, sono stati sterminati dagli jugoslavi titini coadiuvati da comunisti italiani all'epoca della pulizia etnica e delle foibe. La cosa strana è che Paoli è pure un ex deputato del Pci. Come mai l’allora ultrasettantenne Paoli si è deciso a vuotare il sacco? Boh. Paoli non è uno qualunque, è sempre stato considerato una specie di monumento nazionale per via di due o tre canzoni anni Sessanta che gli hanno dato fama e ricchezza imperiture.
È appartenente alla cosiddetta “scuola genovese” della prima ondata, quella dei Tenco, Bindi, Lauzi, De André, formatisi alla musica dei bistrot francesi e alla coeva filosofia esistenzialista di Sartre. Il quale era pro Urss. Genova ha continuato a sfornare musici pop, come i Matia Bazar, i New Trolls, Ivano Fossati e i suoi Delirium. Ma anche Paolo Villaggio, che con De André scrisse la goliardica Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitiers. Che nessuno, neanche per scherzo, ha avuto il coraggio di intonare quando “Re Carlo” (III) è venuto in Italia a ricordarci a chi dobbiamo l'Unità.
Ma torniamo a Paoli, che è stato pure presidente della Siae (Società Italiana Autori ed Editori, che gestisce i diritti d'autore). Magari era, chissà, di quelli che, pur prendendo le distanze dai “compagni che sbagliano”, hanno continuato ad essere convinti che “il vero socialismo è altro” e seguitato a credere nel Sol dell'Avvenire. In effetti, il mondo dell'arte (e non solo quello italiano) è da (quasi) sempre monopolio della sinistra, perciò per farne parte aiuta professarne le idee. Mi si permetta a questo punto un aneddoto personale: da giovane, molto giovane, volevo fare il cantautore e un duo allora in gran voga mi indirizzò all'editore discografico di De André con queste precise parole: «Vai da lui, è un buon compagno!». Paoli non era personalmente un profugo istriano, ma il suo collega Sergio Endrigo sì. E anche lui si professava comunista, tanto che certe sue canzoni (non quelle d'amore struggente) avevano titoli come Lettera da Cuba. Tralasciamo qui i reduci repubblichini che pur divennero famosi e anche famosissimi nello spettacolo, perché di loro si sa.
Si poteva far carriera in quell'ambiente senza professare idee comuniste? A quanto pare sì, a patto di custodire la lingua (una volta a Walter Chiari scappò detto che «dalle tasche di Mussolini appeso per i piedi non cadde una lira» e si scatenò il finimondo). Un paio di profughi dalla Jugoslavia che ebbero successo pur non essendo comunisti – ma solo due – erano lo stilista Ottavio Missoni e l'attrice Alida Valli, che alla sua italianità teneva fieramente. Invece, Pier Paolo Pasolini ebbe un fratello, partigiano “bianco” della Brigata Osoppo, ucciso dai partigiani “rossi” italiani collusi con i titini. Il che non impedì a Pasolini di iscriversi al Pci e restarci. Tra i partigiani massacrati della Osoppo c'era anche un Francesco De Gregori, zio dell'omonimo cantautore le cui idee sono note.
Si potrebbe continuare, ma la domanda è: visto che i tuoi guai familiari vengono dai comunisti e visto che – almeno inizialmente – si poteva aver successo nello spettacolo (vedi per esempio un Raimondo Vianello) senza comunisteggiare, perché aggregarsi proprio con quelli di cui dovresti disprezzare idee e azioni? È vero, finita la guerra, il personale artistico bravo scarseggiava, perciò anche gli ex repubblichini potevano scalare i palcoscenici, anche perché i livelli artistici richiesti erano alti. Oggi no, e Giorgia Meloni può retoricamente chiedersi come mai, in percentuale, gli italiani votano in gran maggioranza a destra mentre gli attori sono tutti dell'altro lato. Eh, a fare il rapper sono buoni tutti, a reggere tre ore di teatro interpretando Sofocle no. Insomma, misteri dell'animo umano.