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EGEMONIA CULTURALE

I giornalisti fanno ideologia, ma i lettori sono stanchi

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Dagli albori della stampa giacobina, i giornalisti fanno ideologia. Ma i tempi sono cambiati, perché alle loro campagne incendiarie i lettori rispondono non votando e non comprando più i giornali.

Cultura 15_10_2025
Stampa giacobina, "Il trionfo di Marat"

Alla vigilia del '900 gli Usa cercavano un casus belli per togliere Cuba alla Spagna, possibilmente un movimento indipendentista da fomentare. Che però, malgrado i foraggiamenti, stentava a nascere. Il maggior editore di giornali americano teneva un corrispondente all'Avana perché gli segnalasse ogni minimo accenno di insurrezione. Quello, dopo un po', chiese di rientrare poiché là non succedeva nulla. L'editore rispose testuale: «Tu resta lì. Alla guerra penso io». Ebbene, una volta i giornali potevano contribuire a scatenare guerre aizzando l'opinione pubblica a tempo debito. Ma oggi sembra che il tempo debito sia sempre, con una mobilitazione permanente e taniche di benzina mai chiuse.

Il recente caso del misunderstanding tra la ministra Roccella e la senatrice-a-vita Segre dimostra, se ci fosse bisogno, l'assunto. Lo schema è questo: uno dice una cosa che, detta a braccio, si presta a essere equivocata; il giornalista appunta, poi si precipita al possibile interlocutore e, sottolineando ciò che per lui è foriero di polemica (polemos, greco: guerra), riferisce quanto quello ha detto; l'interlocutore, anziché dire all'incauto “Ma non mi faccia perdere tempo!”, volentieri ingoia l'esca, l'amo e la lenza: “Ah, ha detto così? Ebbene, gli dica che...”. Quello esegue, magari con accenti adatti, e il gioco è fatto. I partiti a quel punto si schierano secondo ideologia, i loro giornali pure. Ed ecco che da una cretinata nasce un conflitto nazionale (non scherzo: ricordiamoci il bismarckiano Dispaccio di Ems).

Ma, dal momento che la gente è ormai stufa di questo teatrino, ecco la crescita dell'astensione alle urne, ecco la discesa a picco delle vendite di giornali. Se la farsa tragica sembra continuare è perché per tanti sono (ancora) golosi posti di lavoro. Così, ogni sera i tiggì seguitano a prodursi stancamente in un'”informazione” che riproduce lo stantio schema: “Il ministro ha dichiarato che”, “Durissima l'opposizione”, e giù la processione di facce in ordine Cencelli. Sembra di leggere il Berlicche di C.S.Lewis o qualunque cosa di Goldoni. L'archetipo è la comare seduta fuori che, sferruzzando, dice alle amiche: “Avete sentito l'ultima?”.

Ciò oggi è organizzato e nobilitato: giornalismo, il pubblico ha il diritto di sapere. Ma diceva giustamente Solzenicyn che ci sono cose che il pubblico ha il diritto di non sapere: l'inutile, il falso, il dannoso. Solo che troppo tempo è passato, e ciò che partì nel 1789 ormai è prossimo al collasso. Il giornalista deve scrivere praticamente sotto dettatura del suo direttore. Il quale esegue i desiderata del padrone. Il quale bada solo a far fruttare l'investimento, che è la sua unica ideologia. La Restaurazione post-napoleonica durò poco a causa di un meccanismo simile: per più di vent'anni i francesi erano stati indottrinati dai giornali giacobin-liberali, che erano gli unici in circolazione; le monarchie non avevano mai avuto nulla di simile, e ora non osavano abolire la libertà di stampa. E la monarchia crollò subito. Oggi il sistema è giunto al capolinea, con un'anarchia informativa da un lato e un “voto coi piedi” dall'altro: il tutti-contro-tutti di un settore minoritario, e l'abbandono per nausea dei restanti (il cui numero è in crescita). Come andrà a finire? L'ha già detto Orwell.