Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL LIBRO

I Comandamenti raccontati da un bambino

Non un manuale di catechismo ma una sorta di fiction in cui è un bambino a scoprire la legge di Dio ascoltando la voce impressa nel suo cuore. È il libro scritto e presentato da monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia.

Cultura 23_07_2018
La copertina del libro

“Per la prima volta un libro di catechismo è presentato come una fiction, il cui protagonista è un ragazzo che ascolta una voce, una voce interiore che è riflesso di una paternità che ci ha generato e ci genera ogni momento”. Con queste parole mons. Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla e fondatore della “Fraternità dei Missionari di San Carlo Borromeo”, ha illustrato recentemente in un incontro a Torino il leit motiv del suo recente volume “Le 10 parole di Tullio. I dieci comandamenti raccontati da un bambino (Electa Junior 2017, pp. 80).

Non è il solito manuale per il catechismo, ma un libro in cui la fede non è ridotta a una serie di contenuti da apprendere, ma è incarnata e vissuta da Tullio, un bambino di 11 anni, attraverso le risposte esistenziali che tenta di dare nello sforzo di corrispondere all’anelito del proprio cuore. Di fronte a ogni sua scelta si pone dunque il bene e il male, sia nel suo rapporto con gli amici e coi propri familiari che nel rapporto con le cose. Tullio scopre gradualmente e a proprie spese che non è bene coltivare sentimenti quali l’ira, l’invidia e la gelosia, che lo spingono persino a rubare una bici di un amico, giungendo a comprendere progressivamente che le 10 parole date da Dio a Mosé non sono un retaggio del passato ma, una volta interiorizzate, sono le parole che il Creatore dice alla sua vita e dunque le ‘sue’ parole.

Mons. Camisasca non ha nascosto come nella società contemporanea risulti difficile educare i giovani alla fede. Tuttavia sebbene “l’epoca di crisi in cui viviamo è il vaglio di Dio, anche il nostro tempo ha le sue luci, le venute di Dio, le sue apparizioni”. Insieme alle ombre occorre perciò che i genitori educhino dapprima il loro sguardo e poi quello dei propri figli a guardare tali luci, tali segni della presenza di Dio viva e vera in mezzo al suo popolo.

Nella sua lucida analisi della situazione attuale egli ha capovolto la tesi diffusa per la quale “i giovani non ci sono”, individuando piuttosto il problema nell’assenza degli adulti, divenuti incapaci di leggere i segni della presenza di Dio nella realtà. Per il mondo degli adulti tutto si tinge ormai di negatività, perché essi hanno dimenticato quel “sano realismo cristiano, che si basa sul convincimento che Cristo ha già vinto e il demonio ha perso, per cui può soltanto cercare di trascinare con sé il maggior numero possibile di anime alla perdizione”. Per questo motivo – ha proseguito Mons. Cmisasca – “il trend del pensiero che domina la nostra società è quello di un uomo che agisce pensando di essere Dio: oggi sono i miei sentimenti il criterio della scelta di ciò che è vero o falso, bene o male”.

La radice della crisi attuale dell’educazione è la concezione comunemente diffusa di “un uomo dei diritti infiniti, senza debolezze, che non ha nessuno a cui chiedere perdono, perché non si percepisce più come una creatura”. Ma “se l’uomo non è più creatura, allora non c’è più educazione, perché educare è aiutare la persona a sviluppare tutti i semi che Dio ha posto dentro di lei. Educare è riconoscere il seme di Dio che è nell’altro e di cui io non sono il padrone”.

Ecco perché “l’educazione nasce da un atto di umiltà: io, che sia padre o madre, non sono dio della vita dei miei figli – rileva ancora mons. Camisasca - ma devo essere sole, acqua, aria, perché fioriscano i talenti che il Creatore ha seminato nel loro campo. Come Dio fa con noi, come Egli non si impone ma si propone, così un genitore è chiamato a fare: l’educazione è una proposta”. Una proposta che non rimanga ideale, ma s’incarni nella vita concreta di ogni giorno, facendosi testimonianza vera, in quanto “una verità non può trasmettersi senza il fascino della bellezza”.

Anche educare alla fede deve prendere le mosse da tale consapevolezza. “Gesù stesso infatti non ha mai fatto catechismo in modo sistematico: la dottrina non è un altro mondo, ma è questo mondo letto con gli occhi della fede”. Ecco il motivo del fallimento dell’impostazione tradizionale del catechismo inteso come un mero indottrinamento asettico e non piuttosto quale “introduzione alla vita cristiana”. Nel ribadire allora la necessità di insegnare la dottrina cristiana, il vescovo di Reggio Emilia ha sottolineato però anche l’esigenza di coniugare le verità rivelate con la vita concreta dei ragazzi, aiutandoli a comprendere che la fede non è qualcosa da imparare, bensì un orizzonte che coinvolga ogni aspetto della loro esistenza concreta. Pertanto “essi hanno bisogno di sapere che Dio è un Padre buono che ha cura di loro, devono imparare come è Dio e dove lo si vede e incontra; devono apprendere che il Creatore ha mandato il suo Figlio per la salvezza di tutti; ma anche che c’è il peccato, che l’errore non ha l’ultima parola sulla loro esistenza e che c’è una vita oltre la vita”. Ma ciò di cui un figlio ha più bisogno, prima di ogni cosa e della stessa fede, è naturalmente di sentirsi amato dai propri genitori ed educatori. La mancanza di tale sguardo d’amore contribuisce piuttosto a generare nei ragazzi comportamenti violenti. Infatti gli stessi ragazzi che giocano a fare i bulli vogliono solo attirare l’attenzione: è il loro grido d’aiuto perché non si sentono amati”. Pertanto “il bullismo come ha infine osservato mons. Camisasca non si risolve con l’educazione civica, ma costruendo comunità di persone capaci di ascoltarli e amarli”.