I bimbi di Rita. Ecco chi era la volontaria uccisa in Kenya
Papa Francesco aveva lasciato il Kenya da poche ore quando una tragica notizia ha spazzato via bruscamente il lieto clima di fiducia, il tripudio di gioia dei giorni scorsi. Proprio in Kenya Rita Fossaceca, 51 anni, un medico di Novara, è stata uccisa e tre altri italiani sono stati feriti nel corso di una rapina.
Papa Francesco aveva lasciato il Kenya da poche ore quando una tragica notizia ha spazzato via bruscamente il lieto clima di fiducia, il tripudio di gioia dei giorni scorsi. Proprio in Kenya Rita Fossaceca, 51 anni, un medico di Novara, è stata uccisa e tre altri italiani sono stati feriti nel corso di una rapina. È successo a Mijomboni, un villaggio nell’entroterra di Malindi e Gede, dove la Ong ForLife Onlus gestisce un piccolo ambulatorio e un orfanotrofio che ospita una ventina di bambini. Dei malviventi armati di panga, un attrezzo simile al machete, e armi da fuoco sono entrati il 28 novembre nell’abitazione dove la dottoressa viveva con altri volontari italiani e con i suoi genitori. Sembra che sia stata uccisa mentre tentava di difendere la madre.
Come già altre volte, Rita Fossaceca era andata in Kenya per prestare servizio nella struttura della ForLife Onlus per alcune settimane, usando le proprie ferie, accompagnata dai genitori che davano una mano a loro volta. Sulla pagina web della Ong c’è il suo diario di viaggio. Il 19 novembre scriveva: «il mio papà sta facendo molti lavori per la manutenzione della casa e dell’infermeria. È stato ridipinto uno dei mobili in metallo, sono state riparate porte e maniglie, le due biciclette». Poi parla del pollaio con 15 galline e un gallo, «un gran passo avanti per la casa. Vengono prodotte uova giornalmente che in parte soddisfano le esigenze del villaggio».
L’ultimo messaggio risale al 23 novembre. Parla del buon funzionamento dell’infermeria, del progetto di comprare due brandine per i pazienti. Conclude annunciando l’acquisto di una mucca, grazie al denaro offerto da sei amici italiani, e la necessità di sostituire il condizionatore danneggiato durante un incendio. Si rallegra anche della collaborazione degli operatori locali, Nelson e Omar, ma con la preoccupazione che uno di loro, ormai ben addestrato, vada a lavorare da qualche altra parte dopo la loro partenza. Il quadro che emerge dalla lettura è toccante: piccole conquiste, progetti, problemi quotidiani, tanto entusiasmo, pazienza, buona volontà; e poi tutto finito, improvvisamente, per mano di ladri disposti a uccidere anche per un modesto bottino. La casa in cui vivono i dipendenti dell’Ong, infatti, benché in muratura, è poco più di una capanna, arredata semplicemente, né i volontari viaggiano con gioielli, costose apparecchiature fotografiche e grandi somme di denaro come spesso i turisti.
A pochi chilometri da Mijomboni ci sono invece, lungo la costa, le ville che ospitano migliaia di residenti e di turisti, in gran parte italiani, protette, così come gli alberghi e i locali pubblici, da sistemi di allarme e guardie armate, perché la delinquenza comune in Kenya è diffusa. Non per niente la Farnesina consiglia agli italiani che sulla costa non soggiornano in strutture alberghiere «di affittare soltanto case con servizio di sorveglianza e personale affidabili» e ricorda che «episodi di rapina a mano armata sono stati registrati sia in alberghi sia in case private».
Ma probabilmente la ForLife Onlus ha tutt’al più un guardiano notturno per niente addestrato, munito al massimo di un panga o di un bastone e forse di un fischietto per lanciare l’allarme in caso di pericolo. A rassicurare non è solo l’idea di non essere un bersaglio allettante per i ladri. Chi sacrifica tempo e denaro per assistere con dedizione e amore il prossimo non pensa al male e confida di essere ben accolto, ben voluto: «Lì era amata da tutti, tutti le volevano bene», ha detto all’agenzia Ansa Tonino Fossaceca, cugino della dottoressa uccisa «Ero stato con lei in Kenya proprio in quel villaggio, lo avevo trovano un posto tranquillo».
Rita Fossaceca era amata a Mijomboni, nessuno le avrebbe mai torto un capello. I delinquenti però esistono dappertutto, si affretta a ricordare giustamente qualche italiano residente sulla costa, sempre preoccupato che notizie del genere scoraggino il turismo, settore da cui molti degli italiani emigrati in Kenya dipendono. Ma in più, in Africa, tradizione vuole che si considerino estranei da tenere a distanza e di cui diffidare tutti coloro che non fanno parte della propria famiglia, del proprio lignaggio, del proprio clan: è quella forma di razzismo nota come tribalismo. Sotto l’influenza di questa terribile eredità tribale, non si capisce neanche bene come mai qualcuno arrivi da lontano a soccorrere degli estranei, ancor meno si apprezza che servizi e assistenza vengano forniti indiscriminatamente a uomini e donne di qualsiasi etnia e fede – diversi missionari e cooperanti sono stati uccisi proprio per questo in Africa – e nemmeno si è riconoscenti per gli aiuti forniti ad altre comunità, diverse dalla propria.
Le aree rurali in Kenya, trascurate dal governo e dalle amministrazioni locali, devono molto alla cooperazione internazionale specie nel settore sanitario e dell’assistenza in generale. 15 galline, due brandine, un ecografo sono una risorsa preziosa, «un grande passo avanti» per chi manca di tutto. Eppure non è il fatto di lavorare in una organizzazione benefica a proteggere da ladri e assassini, tanto più sulla costa swahili del Kenya, a maggioranza musulmana, dove i jihadisti somali al Shabaab reclutano con facilità gente risentita per la supremazia delle etnie bantu e cristiane degli altipiani, da sempre al potere, e dove, anche tra chi non si arruola nel jihad, c’è rancore nei confronti dei “wazungu”, i bianchi, perché furono i colonizzatori, e adesso semplicemente perché ricchi e perché – secondo gli slogan antioccidentali predicati irresponsabilmente da decenni – arricchiti depredando il resto del mondo, siano essi turisti o benefattori.