Harvard parla di “persone” partorienti e non di “donne”
Nella grande maggioranza dei 478 atenei analizzati da uno studio sulle università americane "se un professore dice qualcosa di controverso...ci sono persone che sostengono che dovrebbe essere licenziato". Le parole "discriminanti" sono però solo quelle che rispettano la realtà, al contrario si può dire di tutto. Così Harvard parla di "persone partorienti" a favore di quante si identificano come uomini ma contro tutte le altre madri.
In circa l’88 per cento delle università di un paese democratico come gli Usa la libertà di espressione è seriamente minacciata. A dire che un sistema politico senza una legge universale a cui sottomettersi può trasformarsi in tirannia. Uno studio della Foundation for Individual Rights in Education ha lanciato l’allarme riportando le limitazioni previste negli atenei non verso le offese, le bestemmie o le parolacce che potrebbero ledere la dignità delle persone, bensì verso la possibilità di chiamare le cose con il proprio nome.
Ad esempio, si legge, nella grande maggioranza dei 478 atenei analizzati "se un professore dice qualcosa di controverso...improvvisamente ci sono persone che sostengono che dovrebbe essere licenziato anche se il discorso è un discorso protetto (dal primo emendamento, ndr)". Basti pensare che ci sono professori che vengono licenziati per aver usato il pronome femminile rivolgendosi ad uno studente maschio che però vuole essere trattato come una femmina o al fatto che in Iowa si sia invece aperta una controversia contro un’associazione studentesca di repubblicani considerata pericolosa per il solo fatto di essere a favore di Trump.
Ma anche la Gran Bretagna non è da meno: fra decine di episodi noti, spicca quello della University of East Anglia che vietò ad un ristorante messicano del campus di distribuire sombreri agli studenti, bollando come razzista l’operazione di marketing.
Fra le università che si sono classificate fra le peggiori in quanto alla limitazione della libertà di espressione ci sono le più prestigiose, come Princeton, la cattolica Notre Dame University e la John Hopkins University. Ora è la volta della scuola di medicina di Harvard che ha scelto di non parlare più della “donne che partoriscono”, ma solo della “persone che partoriscono”, per evitare di offendere coloro che pur avendo figli desiderano essere identificate come maschi.
La notizia è uscita durante la promozione di un evento dell’ateneo sulla “giustizia materna” a riguardo del fatto che la maternità di alcune minoranze sarebbe discriminata. A reagire sui social contro la decisione di sostituire la parola “donna” con quella di “persone” sono state soprattutto le donne, che hanno parlato di discriminazione al contrario e di “deumanizzazione delle donne”. Ma l’università ha risposto che, pur capendo le reazioni e non volendo “deumanizzare le donne...i relatori del seminario hanno usato il termine “persone partorienti” per includere coloro che si identificano come non binarie o transessuali, perché non tutti coloro che partoriscono si identificano come “donne” o “ragazze””.
Così Harvard ha spiegato la sua politica del linguaggio “inclusivo”, in cui possano sentirsi accolti più individui, non importa se non è fisicamente possibile a nessun altro, se non a una donna, partorire un bambino. E non importa se ciò potrebbe significare discriminare chi pensa che una femmina che nasce tale non potrà mai diventare un maschio.
Inoltre, le politiche sul linguaggio e i regolamenti universitari sempre più diffusi negli ultimi anni stanno contribuendo all’infantilismo dei giovani, sempre meno capaci di reggere l’impatto con la vita nel momento in cui contraddice il loro pensiero, desiderio o volontà. Fra i primi a parlare del fenomeno fu l’intellettuale libertaria inglese di sinistra Claire Fox, nel suo libro Find That Offensive! su quella che ha definito “generazione fiocco di neve”, ossia una generazione di “mollaccioni” (altro termine che probabilmente sarebbe bandito in molti atenei). Fox spiegò di quando durante un dibattito sulla violenza sessuale vide uno stuolo di ragazzine dell’ultimo anno di liceo piangere, incapaci di reagire al suo commento sul fatto che dopo aver scontato la pena un uomo debba avere una seconda possibilità. Nel libro si elencano fatti ed episodi che sottolineano quanto nelle università americane e inglesi siano vietate parole che indicano la semplice realtà, come nero o grasso, a dire che ad essere intolleranti sono le cose stesse che tutte, per natura, hanno dei limiti e delle definizioni.
Oltre a questo ci sono episodi di persone discriminate per le proprie opinioni sulla famiglia e sulla vita, per cui studenti e docenti hanno dovuto subire processi amministrativi. Ovviamente le sanzioni non sono dirette a tutti: chi ad esempio parlasse di “due papà” non potrebbe essere contraddetto da nessuno, mentre colui che sostiene che una famiglia è composta da una madre e un padre sarebbe a rischio. Insomma, ad essere puniti sono solo coloro che sostengono che le foglie sugli alberi sono verdi al fine di non urtare chi pensa che siano blu. Mentre non si bada al fatto che sostenere che siano blu possa urtare coloro che riconoscono il fatto che sono verdi. Insomma, ogni fantasia è ammessa, purché non si allinei alla verità.
Così, oltre agli “spazi sicuri” richiesti dai sindacati degli studenti per garantire la presenza di aree dove consolarsi se si sente una opinione diversa dalla propria, sempre più atenei hanno adottato politiche come quella della “no Platform”, che bandiscono la presenza di relatori che sostengono posizioni controverse. Ci sono poi i “trigger warnings”, ossia gli avvertimenti previsti nel caso in cui all’interno di libri proposti dai docenti o durante le lezioni appaiano passaggi che possono violare la sensibilità di qualcuno.
Si tratta di una rivoluzione contro il creato (che ha degli argini ben definiti) che si combatte con l’arma del linguaggio, necessario a cambiare le menti e a renderle, purtroppo, sempre più fragili e impreparate ad accogliere i limiti della vita.