PERSONAGGI DA RISCOPRIRE
Gustave Thibon, testimone di speranza
Il film Le stelle inquiete, dedicato alla filosofa Simone Weil, ha avuto il pregio d'aver reso nota anche la figura di Gustave Thibon.
Cultura
20_08_2011
L'uscita nelle sale cinematografiche del film Le stelle inquiete, dedicato a un episodio della vita della filosofa Simone Weil (1909-1943), ha avuto il non indifferente pregio d'aver reso nota al pubblico italiano anche la figura del pensatore cattolico Gustave Thibon (1903–2001), il "filosofo-contadino" (philosophe-paysan), l’autodidatta in grado di impratichirsi con le lingue classiche e quelle moderne, lo studioso di Ludwig von Klages, Nietzsche, San Tommaso e della mistica carmelitana capace di guadagnarsi l'ammirazione di figure imponenti del panorama culturale europeo.
Gustave Thibon nasce nel 1903 a Saint-Marcel d’Ardèche (Midi di Francia) da una famiglia contadina. La stretta comunione con i ritmi della natura e la familiarità col silenzio accumulano in lui quelle profonde, vaste riserve interiori che riverserà nelle sue opere. Nel 1916, dopo aver frequentato la scuola comunale, si vede costretto ad abbandonare gli studi per dedicarsi al lavoro nei campi. Alieno da preoccupazioni religiose, trascorre un'adolescenza agnostica. A diciotto anni è assalito però da una veemente passione per la conoscenza. Con impeto febbrile si getta nello studio delle lingue, impara da solo il latino, il greco e il tedesco. Affronta testi di filosofia e teologia, si cimenta anche nella matematica e la biologia.
Thibon si riconcilia con la fede cattolica dell'infanzia grazie alla lettura di Léon Bloy (1846–1917) e all'incontro con Jacques Maritain (1882–1973), cui deve la scoperta dell'opera di San Tommaso d'Aquino. Maritain lo incoraggia a scrivere e la sua amicizia (interrotta in seguito a divergenze di giudizio su Charles Maurras e l'Action française) gli permetterà di pubblicare i primi articoli sulla Revue Thomiste.
È sempre l'incoraggiamento degli amici a consentirgli di vincere la naturale inclinazione alla modestia e spingerlo così a pubblicare, nel 1940, l'opera che lo rivela al grande pubblico: Diagnostics. Essai de physiologie sociale, cui segue Retour au réel. Nouveaux diagnostics (1943). Il primo dei due saggi verrà fatto tradurre e pubblicare nel 1947 dalla Morcelliana con il titolo di Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale. Grazie all'interessamento di Marco Tangheroni (1946–2004), nel 1973 le Edizioni Volpe pubblicano una nuova traduzione di Diagnosi che fa seguito, a distanza di un anno, alla prima edizione italiana di Ritorno al reale. Nuove diagnosi (1972). Nella nostra lingua sono state tradotte anche le raccolte di aforismi thiboniani La scala di Giacobbe (1947), Il pane di ogni giorno (1949), L'uomo maschera di Dio (1971). Sono stati pubblicati anche Quel che Dio ha unito. Saggio sull'amore (1947), Vivere in due (1955), Crisi moderna dell'amore (1957), Nietszche o il declino dello spirito (1964). Infine va segnalato il libro-testimonianza scritto col padre domenicano Joseph-Marie Perrin, Simone Weil come l'abbiamo conosciuta (2000).
La profondità del pensiero, la penetrante lucidità del giudizio e la folgorante bellezza dello stile gli valgono ben presto la considerazione di altri prestigiosi intellettuali come Marcel de Corte (1905-1944), Gabriel Marcel (1889–1973), Henri Massis (1886-1970). Ma l'incontro che segnerà maggiormente la sua vita spirituale e intellettuale è quello con Simone Weil. In fuga dai nazisti, nell'estate del 1941 la Weil trova rifugio presso la fattoria di Thibon. Tra l’inquieta pensatrice di origini ebraiche e il filosofo-contadino si instaura un rapporto profondo improntato alla massima schiettezza e a un'altissima stima reciproca, tanto che Simone decide di affidargli i propri manoscritti. Dopo la prematura morte della filosofa (1943) sarà Thibon a incaricarsi di farne conoscere il nome al mondo pubblicando alcuni estratti dei suoi diari col titolo La pesanteur et la grace (1948), edito in italiano come L'ombra e la grazia (trad. it., Comunità, Milano 1951).
Alla morte, che lo coglie nel 2001, Gustave Thibon lascia al mondo – oltre a tre figli, i nipoti e un ricordo indelebile nel cuore di chi l'ha conosciuto – una ventina di opere, innumerevoli articoli e testi di conferenze, senza contare la considerevole mole di scritti rimasti impubblicati.
Su due princìpi poggia l'architrave del pensiero thiboniano: l’opposizione agli idoli e l’amore per l’unità. Due momenti che però «si fondono in un unico, perché l’idolo rappresenta la parte innalzata al tutto, ma soltanto distruggendo gli idoli si può ricostruire l’unità» (Il pane di ogni giorno, Morcelliana, 1949, p. 10). «Dio non ha creato che unendo», osserva Thibon. Il peccato, il dramma dell'uomo consiste nel separare ciò che Dio ha unito: «La metafisica della separazione è la metafisica stessa del peccato» (Quel che Dio ha unito, Società Editrice Siciliana, 1947, p. VI).
Il nostro tempo, segnato dall'oblio dell'Essere e delle verità supreme, è funestato dalla lotta feroce e senza quartiere tra gli idoli. Non può che essere la guerra endemica la condizione strutturale di un mondo dominato da false divinità: nessuna di esse può permettere alle altre di elevarsi al di sopra di tutte per reclamare la signoria spettante all'unico vero Dio. Il conflitto tra gli idoli garantisce così l’impossibilità di ogni autentica trascendenza.
Procurare la morte rappresenta la vera vocazione dell’idolatria: la sete di sangue divora l'idolo, mentre l’odio viscerale per l’Essere lo vota al nulla e alla menzogna. Per il Socrate cristiano vivente in Thibon l'autentico spirito filosofico consiste invece «nel preferire alle menzogne che fanno vivere le verità che fanno morire» (L'ignorance étoilée, Fayard, 1985, p. 45). Thibon fa dunque idealmente suo il detto di Tolkien: "le radici profonde non gelano". Così è delle verità più semplici e ordinarie: la profondità degli abissi appartiene al grande, immenso oceano della normalità. Piatta e superficiale è solo la terra calpestata dagli idoli.
«Il thibonismo è una filosofia del buon senso», ha scritto Hervé Pasqua. La vera saggezza sta nell'essere fedeli tanto al "realismo della terra" quanto alle verità eterne del cielo, giacché «le cose supreme non fioriscono che al di là della tomba. Ma esse cominciano quaggiù e la loro fragile semenza è nei nostri cuori, e niente fiorisce nel cielo, che non sia prima germogliato sulla terra» (La scala di Giacobbe, AVE, 1947, p. 102).
Il mondo moderno è impazzito, sostiene Chesterton, «non tanto perché ammette l'anormalità, ma perché non sa ritrovare la normalità». L'epoca della secolarizzazione ha oltraggiato e decomposto infine la stessa natura umana; ecco perché si rende necessaria anzitutto un'opera di "apostolato del senso comune". «Un tempo – scrive il filosofo francese in un celebre passo di Ritorno al reale – il cristianesimo dovette lottare contro la natura: quella natura era tanto dura, tanto ermeticamente chiusa che la grazia durava fatica a intaccarla. Oggi dobbiamo lottare per la natura, al fine di salvare il minimo di salute terrena necessaria all’innesto del soprannaturale».
Estraneo all’evanescente spiritualismo che abbandona al male le realtà terrene come al perfettismo incarnato dal mito del progresso tecnico necessario e inarrestabile, più che un "iconoclasta della reazione" – alla maniera del colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), al quale pure è accomunato da numerose affinità, anche stilistiche – Thibon è un "testimone della speranza". «L'epoca in cui tutto si è perduto», scrive, «è anche quella in cui tutto si può ritrovare» (Entretiens avec Gustave Thibon, par Philippe Barthelet, La Place Royale, 1988, p. 175). Schierato a favore della positività ultima del reale, il suo è un appello al riconoscimento della "verità delle cose". La speranza poggia sulla pienezza dell'essere, in ultima istanza sull'onnipotenza divina. Dio è, è l'Essere. L'idolo, il non-essere: l'idolatria è la religiosità della disperazione. Crolla così il presupposto della gnosi eterna: l'irredimibile, disperata negatività della realtà creata. È l’amore a svelare il mistero stesso dell’essere.
Se la metafisica della speranza thiboniana si rivela impermeabile ai fuochi fatui del progressismo, certo non indulge alle suggestioni "tradizionaliste" delle utopie "archeologiche". «Che m’importa dunque il passato in quanto passato? Non vi accorgete che quando piango sulla rottura di una tradizione, è soprattutto all’avvenire che penso. Quando vedo marcire una radice, ho pietà dei fiori che seccheranno domani per mancanza di linfa» (L’uomo maschera di Dio, SEI, 1971, p. 258). La devota memoria del passato non deve indurci a «considerare la morte delle cose mortali come una sconfitta irreparabile. Non aggrapparsi totalmente, disperatamente alla materialità (nel senso più ampio) di una tradizione, di una istituzione, d'un regime. Occorre salvare l'anima delle cose cui il vento della morte ha spazzato via il corpo» (Parodies et mirages ou la décadence d'un monde chrétien. Notes inédites (1935-1978), Éditions du Rocher, 2011, p. 20). L'affermazione di valori soprastorici ed eterni non va confusa con l’immagine di una realtà storica compiuta e realizzata. «La vera fedeltà non consiste [...] nell’impedire ogni cambiamento, ma più precisamente nell’impregnare ogni cambiamento di eterno» (Crisi moderna dell'amore, Marietti, 1957, p. 8).
Il philosophe-paysan sa bene che se è preclusa la via del ritorno al paradiso terrestre, ostruita dalla misteriosa realtà del peccato originale, nondimeno l'uomo, come direbbe Gomez Dàvila, "respira male in un mondo non attraversato da ombre sacre". L'ideale della cristianità non può essere accantonato superficialmente. Certo: il regno di Dio non è di questo mondo; occorre scansare il ricorrente «mito dell'uomo collettivo», la tentazione idolatrica che nel "Grosso Animale" platonico (cfr. Repubblica, VI, 492-493) trova forse l'immagine più eloquente.
Ciononostante, è la stessa natura umana a richiedere «una civiltà dove il temporale è irrigato senza posa dall'eterno» (Préface à Dom Gérard, Demain la Chrétienté, Dismas, 1986, p. 11). Il cristiano deve spendersi anche per una società centrata su Dio, portatrice e trasmettitrice dei valori eterni (il Vero, il Bello e il Bene), in cui le tradizioni e i costumi siano intermediari (metaxu) tra l'uomo e il suo fine trascendente. «La nostra eternità non è la negazione del tempo, ne è la fidanzata» (Il pane di ogni giorno, cit., p. 165). L'esempio stesso dei santi mostra che i cristiani devono essere al tempo stesso «visionari del cieli e prodigiosi operai sulla terra».
Al contrario, un mondo impregnato della mera "terrestrità" auspicata da Gramsci nei Quaderni del carcere, imperniato cioè sul principio dell'uomo "misura di tutte le cose", è generatore di una dis-società: un coacervo di individui atomizzati retto unicamente dal precario equilibrio dei rapporti di forza. Lo stesso termine "equilibrio" è sintomatico, chiosa Thibon: «L'equilibrio concerne unicamente la quantità, la pesantezza, i rapporti di forza. L'armonia implica la qualità e la convergenza di qualità verso un fine comune» (L'équilibre et l'harmonie, Fayard, 1976, p. XI).
La nevrosi egualitaria che agita il nostro tempo va ricondotta all'abbandono di questa essenziale distinzione. L'assolutizzazione del principio di uguaglianza si esprime nella legge del numero. Ma il trionfo del quantum non lascia spazio se non al "mondo in frantumi" scaturito dallo scontro di esseri massificati e gruppi "sconnessi" tra loro, senza alcun legame – prima di tutto interiore – a unirli.
Tragiche sono le conseguenze: il conflitto «eretto a legge permanente delle società» e la «generalizzazione della violenza» che sempre più diviene «l'unico mezzo di farsi intendere e ottenere soddisfazione» (ibidem). Si spiega così perché in questo "regno della quantità" si sia imposta la metafora dell'equilibrista in luogo di quella dell'accordatore, l'armonizzatore di suoni. Ma «l'equilibrismo ha fatto il suo tempo, non abbiamo che la scelta tra i due termini di questa alternativa: restaurare, mediante l'armonia, un ordine vivente o lasciarci imporre un ordine morto e mortale da una forza senz'anima che annichilirà tutte le altre» (ibid.).
La ragione spietatamente calcolatrice dell’uomo-massa è incline a organizzare il suo spazio di vita alla stregua di una macchina, plasmandolo per mezzo della tecnica. Sintomo di questa patologia è la crescente diffusione di organismi sociali artificiali, di collettività anonime in seno alle quali gli uomini, puri ingranaggi di una megamacchina sociale, agiscono come funzionari irresponsabili. Questi raggruppamenti trascurano la legge fondamentale dell’armonia e della durata di una società: la legge della comunità di destino, fondata sul principio di interdipendenza o di reciproca solidarietà.
Nella comunità di destino – il cui esempio più tipico è rappresentato dalla famiglia – l’interesse personale coincide invece con l’assolvimento del proprio dovere. Una società è sana, afferma Thibon, nella misura in cui tende ad attenuare la tensione tra interesse e dovere, è malsana nelle misura in cui tende a esasperarla.
Il mondo moderno è impazzito, sostiene Chesterton, «non tanto perché ammette l'anormalità, ma perché non sa ritrovare la normalità». L'epoca della secolarizzazione ha oltraggiato e decomposto infine la stessa natura umana; ecco perché si rende necessaria anzitutto un'opera di "apostolato del senso comune". «Un tempo – scrive il filosofo francese in un celebre passo di Ritorno al reale – il cristianesimo dovette lottare contro la natura: quella natura era tanto dura, tanto ermeticamente chiusa che la grazia durava fatica a intaccarla. Oggi dobbiamo lottare per la natura, al fine di salvare il minimo di salute terrena necessaria all’innesto del soprannaturale».
Estraneo all’evanescente spiritualismo che abbandona al male le realtà terrene come al perfettismo incarnato dal mito del progresso tecnico necessario e inarrestabile, più che un "iconoclasta della reazione" – alla maniera del colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), al quale pure è accomunato da numerose affinità, anche stilistiche – Thibon è un "testimone della speranza". «L'epoca in cui tutto si è perduto», scrive, «è anche quella in cui tutto si può ritrovare» (Entretiens avec Gustave Thibon, par Philippe Barthelet, La Place Royale, 1988, p. 175). Schierato a favore della positività ultima del reale, il suo è un appello al riconoscimento della "verità delle cose". La speranza poggia sulla pienezza dell'essere, in ultima istanza sull'onnipotenza divina. Dio è, è l'Essere. L'idolo, il non-essere: l'idolatria è la religiosità della disperazione. Crolla così il presupposto della gnosi eterna: l'irredimibile, disperata negatività della realtà creata. È l’amore a svelare il mistero stesso dell’essere.
Se la metafisica della speranza thiboniana si rivela impermeabile ai fuochi fatui del progressismo, certo non indulge alle suggestioni "tradizionaliste" delle utopie "archeologiche". «Che m’importa dunque il passato in quanto passato? Non vi accorgete che quando piango sulla rottura di una tradizione, è soprattutto all’avvenire che penso. Quando vedo marcire una radice, ho pietà dei fiori che seccheranno domani per mancanza di linfa» (L’uomo maschera di Dio, SEI, 1971, p. 258). La devota memoria del passato non deve indurci a «considerare la morte delle cose mortali come una sconfitta irreparabile. Non aggrapparsi totalmente, disperatamente alla materialità (nel senso più ampio) di una tradizione, di una istituzione, d'un regime. Occorre salvare l'anima delle cose cui il vento della morte ha spazzato via il corpo» (Parodies et mirages ou la décadence d'un monde chrétien. Notes inédites (1935-1978), Éditions du Rocher, 2011, p. 20). L'affermazione di valori soprastorici ed eterni non va confusa con l’immagine di una realtà storica compiuta e realizzata. «La vera fedeltà non consiste [...] nell’impedire ogni cambiamento, ma più precisamente nell’impregnare ogni cambiamento di eterno» (Crisi moderna dell'amore, Marietti, 1957, p. 8).
Il philosophe-paysan sa bene che se è preclusa la via del ritorno al paradiso terrestre, ostruita dalla misteriosa realtà del peccato originale, nondimeno l'uomo, come direbbe Gomez Dàvila, "respira male in un mondo non attraversato da ombre sacre". L'ideale della cristianità non può essere accantonato superficialmente. Certo: il regno di Dio non è di questo mondo; occorre scansare il ricorrente «mito dell'uomo collettivo», la tentazione idolatrica che nel "Grosso Animale" platonico (cfr. Repubblica, VI, 492-493) trova forse l'immagine più eloquente.
Ciononostante, è la stessa natura umana a richiedere «una civiltà dove il temporale è irrigato senza posa dall'eterno» (Préface à Dom Gérard, Demain la Chrétienté, Dismas, 1986, p. 11). Il cristiano deve spendersi anche per una società centrata su Dio, portatrice e trasmettitrice dei valori eterni (il Vero, il Bello e il Bene), in cui le tradizioni e i costumi siano intermediari (metaxu) tra l'uomo e il suo fine trascendente. «La nostra eternità non è la negazione del tempo, ne è la fidanzata» (Il pane di ogni giorno, cit., p. 165). L'esempio stesso dei santi mostra che i cristiani devono essere al tempo stesso «visionari del cieli e prodigiosi operai sulla terra».
Al contrario, un mondo impregnato della mera "terrestrità" auspicata da Gramsci nei Quaderni del carcere, imperniato cioè sul principio dell'uomo "misura di tutte le cose", è generatore di una dis-società: un coacervo di individui atomizzati retto unicamente dal precario equilibrio dei rapporti di forza. Lo stesso termine "equilibrio" è sintomatico, chiosa Thibon: «L'equilibrio concerne unicamente la quantità, la pesantezza, i rapporti di forza. L'armonia implica la qualità e la convergenza di qualità verso un fine comune» (L'équilibre et l'harmonie, Fayard, 1976, p. XI).
La nevrosi egualitaria che agita il nostro tempo va ricondotta all'abbandono di questa essenziale distinzione. L'assolutizzazione del principio di uguaglianza si esprime nella legge del numero. Ma il trionfo del quantum non lascia spazio se non al "mondo in frantumi" scaturito dallo scontro di esseri massificati e gruppi "sconnessi" tra loro, senza alcun legame – prima di tutto interiore – a unirli.
Tragiche sono le conseguenze: il conflitto «eretto a legge permanente delle società» e la «generalizzazione della violenza» che sempre più diviene «l'unico mezzo di farsi intendere e ottenere soddisfazione» (ibidem). Si spiega così perché in questo "regno della quantità" si sia imposta la metafora dell'equilibrista in luogo di quella dell'accordatore, l'armonizzatore di suoni. Ma «l'equilibrismo ha fatto il suo tempo, non abbiamo che la scelta tra i due termini di questa alternativa: restaurare, mediante l'armonia, un ordine vivente o lasciarci imporre un ordine morto e mortale da una forza senz'anima che annichilirà tutte le altre» (ibid.).
La ragione spietatamente calcolatrice dell’uomo-massa è incline a organizzare il suo spazio di vita alla stregua di una macchina, plasmandolo per mezzo della tecnica. Sintomo di questa patologia è la crescente diffusione di organismi sociali artificiali, di collettività anonime in seno alle quali gli uomini, puri ingranaggi di una megamacchina sociale, agiscono come funzionari irresponsabili. Questi raggruppamenti trascurano la legge fondamentale dell’armonia e della durata di una società: la legge della comunità di destino, fondata sul principio di interdipendenza o di reciproca solidarietà.
Nella comunità di destino – il cui esempio più tipico è rappresentato dalla famiglia – l’interesse personale coincide invece con l’assolvimento del proprio dovere. Una società è sana, afferma Thibon, nella misura in cui tende ad attenuare la tensione tra interesse e dovere, è malsana nelle misura in cui tende a esasperarla.
Per l’Occidente "sazio e disperato", sfregiato dai resti delle ideologie totalitarie, il realismo thiboniano reca quindi un grande messaggio di speranza: «L'unica nobiltà dell'uomo, la sola via di salvezza consiste nel riscatto del tempo per mezzo della bellezza, della preghiera e dell'amore. Al di fuori di questo, i nostri desideri, le nostre passioni, i nostri atti non sono che «vanità e soffiar di vento», risacca del tempo che il tempo divora. Tutto ciò che non appartiene all'eternità ritrovata appartiene al tempo perduto» (L'uomo maschera di Dio, cit., p. 262).