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LA MANOVRA

Governo: quelle promesse non si possono mantenere

Dal "governo del cambiamento" ci si poteva attendere qualcosa di molto più ambizioso nei tagli agli sprechi e ai privilegi. Ci si poteva attendere la flat tax promessa dalla Lega (assieme al centrodestra). E invece vanno avanti solo le promesse da campagna elettorale. E pure i grillini restano a bocca asciutta su Tap e ministero del Turismo.

Politica 18_10_2018
Di Maio alla festa del "governo del cambiamento"

Mentre non si esclude una bocciatura della nostra manovra di bilancio da parte dell’Unione Europea, si discute anche in Italia dei contenuti del documento di programmazione economico-finanziaria approntato dal governo Conte, sul quale affiora più di qualche dubbio.

Non c’era da rallegrarsi neppure gli anni scorsi, di fronte a scelte di politica economica che non hanno inciso sulle voci di spesa pletoriche ma hanno solo fatto finta di tagliare gli sprechi, senza scalfire minimamente il sistema di rendite clientelari alimentato dai vecchi partiti. Questa volta, però, c’era da aspettarsi scelte più coraggiose, sia perché il governo si autodefinisce “del cambiamento”, e quindi alimenta speranze messianiche nell’opinione pubblica, sia perché esso può contare su una fortissima maggioranza numerica, peraltro destinata a incrementarsi percentualmente in base ai sondaggi che circolano da mesi.

E allora, forse, bisognava osare di più sul fronte della lotta agli sprechi, senza limitarsi alla battaglia (più simbolica che sostanziale) per l’abolizione dei vitalizi, portata avanti per soddisfare il furore anti-casta di una parte di elettorato fortemente populista. Per anni, soprattutto dalla fine del 2011, quando il governo Monti prospettò come imprescindibile un’operazione di drastica spending review, sono circolati documenti anche molto dettagliati e analitici sull’abolizione di enti pubblici inutili, figli di una partitocrazia parassitaria che tanti danni ha fatto al Paese. Consigli d’amministrazione riempiti di riciclati, portaborse e parvenu, pagati con i soldi di tutti i cittadini, che i governi precedenti annunciavano di voler tagliare. Consulenze ministeriali e in enti di sottogoverno che gli esecutivi Monti, Letta, Renzi avevano assicurato di voler ridurre drasticamente. Il commissario alla spending review del governo, Carlo Cottarelli, produsse uno studio argomentato sulle voci di bilancio da tagliare, sugli enti da sopprimere o accorpare, sui necessari interventi di riorganizzazione della macchina pubblica, affinchè essa potesse diventare più snella, operativa e, soprattutto, meno costosa. Le risorse risparmiate con quei tagli sarebbero dovute servire per rilanciare l’efficienza e la produttività della pubblica amministrazione, per dare ossigeno al sistema delle imprese, per snellire l’apparato burocratico e il sistema delle leggi, per rendere l’Italia un Paese più attrattivo per gli investitori stranieri.

Appena un anno dopo, nell’ottobre 2014, sotto il governo Renzi, Cottarelli fu costretto a gettare la spugna, ammettendo le difficoltà di relazionarsi con un paludoso mondo burocratico romano, impermeabile a qualsiasi cambiamento. Questa avrebbe dovuto essere la prima e più ambiziosa sfida dell’attuale “governo del cambiamento”: intervenire sui meccanismi, le procedure, i protocolli, promuovere vere e proprie sforbiciate di enti inutili, spese superflue, poltrone e incarichi pletorici. Soprattutto nei famigerati primi cento giorni di governo, che sembrano quelli della perfetta luna di miele con il Paese, un esecutivo coraggioso avrebbe dovuto mettere mano a quelle voci. E invece cosa ha fatto? E’ rimasto fermo alla campagna elettorale, ha continuato a ragionare per slogan, promesse, annunci, mantenendo peraltro nei posti di responsabilità dei principali ministeri burocrati ereditati dalle scorse legislature e fatalmente imbevuti di uno spirito conservatore difficile da estirpare. Risultato? Di drastica riduzione della spesa pubblica neppure l’ombra, forse per non scontentare nessuno. Per converso, una manovra finanziata in larga parte in deficit, provocando le inevitabili e stizzite reazioni europee.

Ma non è solo questa mancanza di coraggio e questo vuoto progettuale in materia di tagli a preoccupare. C’è anche l’indeterminatezza nell’assegnazione del reddito di cittadinanza, senza una chiara delimitazione della platea dei destinatari, senza una definizione trasparente dei criteri e delle modalità di assegnazione, senza una quantificazione degli effettivi costi. Per non parlare della flat tax, promessa in campagna elettorale dalla Lega (all’interno del programma di centrodestra) e praticamente accantonata. E che dire del condono, che premia ancora una volta i furbi mettendoli sullo stesso piano dei contribuenti ligi al dovere, sconfessando i proclami pentastellati di assoluta indisponibilità ad avallare qualsiasi forma di “pace fiscale”.

Ma anche dando il beneficio del dubbio e volendo attendere i primi effetti di queste misure, che peraltro partiranno solo agli inizi del 2019 e, guarda caso, proprio in prossimità delle elezioni europee (niente che non si sia già visto, esattamente come gli 80 euro elargiti da Matteo Renzi alla vigilia del voto per il Parlamento di Strasburgo nel 2014), non si possono dormire sonni tranquilli neppure pensando all’ipotesi di nazionalizzazione di Alitalia, che finirebbe per gravare sulle tasche degli italiani, sulla falsariga di altri interventi di stampo statalista e dirigista che credevamo di aver confinato entro gli angusti confini di un triste passato.

E allora, al di là delle promesse non mantenute, che non sono poche, e lo sanno i pugliesi con la soluzione trovata nella vertenza Ilva o con i lavori del Tap, sempre osteggiati dai parlamentari grillini e ora accettati anche da loro, ma lo sanno anche gli operatori turistici, certi che il governo avrebbe istituito un Ministero per le politiche turistiche, come da promesse di Luigi Di Maio, e invece rimasti a bocca asciutta e privi di uno specifico referente governativo, bisogna riflettere sulla direzione che queste scelte di politica economico-finanziaria potranno imprimere all’Italia.

E’ in gioco la fiducia del nostro Paese agli occhi degli osservatori internazionali, ma è in gioco anche la fiducia degli italiani in un governo dal quale si aspettano tanto. Forse bisognava promettere meno, forse bisognava essere più realisti, trasparenti e onesti fin dall’inizio. Certo è che l’elenco delle cose promesse e già accantonate continua ad allungarsi. E la gente, si sa, non ha più la pazienza di un tempo e non è più disposta a fare sconti.