Governo bocciato, non sa scrivere le leggi ordinarie
Il governo che vorrebbe addirittura cambiare la Costituzione, non sa scrivere le leggi ordinarie. Infatti ha preso due sonore sberla da Corte Costituzionale e Consiglio di Stato, dimostrando grande approssimazione nella stesura dei testi normativi. Bocciata la riforma dell'Amministrazione, adesso tocca a quella delle Banche Popolari.
In meno di dieci giorni il governo ha preso due sberle dalla Consulta e dal Consiglio di Stato, dimostrando quanto meno approssimazione nella stesura di importanti testi legislativi, proprio alla vigilia di una possibile revisione costituzionale. Sono stati in molti tra gli oppositori dell’esecutivo, ma anche tra i cittadini comuni, a commentare sarcasticamente che il governo non sa scrivere le leggi e vorrebbe addirittura cambiare la Costituzione. Ma tant’è. Oggi si vota per un referendum che, se vincessero i “si”, passerebbe alla storia come il momento di maggiore trasformazione della nostra Carta Costituzionale a quasi settant’anni di vita, ma intanto molte delle riforme che il governo ha condotto per via legislativa si sono già impantanate nelle pastoie dell’incostituzionalità e dell’inadeguatezza rispetto agli obiettivi da perseguire.
Il Consiglio di Stato, due giorni fa, ha dato ragione agli oppositori della riforma sulle Banche Popolari, rinviando alla Corte Costituzionale diversi aspetti della legge del 2015, che ha imposto la trasformazione in banche società per azioni entro la fine di quest’anno, a pena della perdita della licenza bancaria. Contemporaneamente ha sospeso alcune norme contenute nella circolare della Banca d’Italia che dava attuazione alla legge, e relative al recesso dei soci. L’organo di giustizia amministrativa ha anche deciso la sospensione cautelare delle norme che impediscono la costituzione di holding cooperative che controllano una banca spa in quanto il limite non è previsto dalla legge. E’ stata sospesa l’efficacia della circolare della Banca d’Italia per quanto riguarda la possibilità di bloccare il rimborso delle azioni su cui è stato esercitato il diritto di recesso in relazione alla trasformazione in spa, qualora superasse certi limiti patrimoniali per la banca. Il Consiglio di Stato ha infatti rilevato la “non manifesta infondatezza” delle questioni di legittimità costituzionale: la circolare Banca d’Italia "appare affetta da vizi nella parte in cui disciplina l’esclusione del diritto al rimborso". Secondo il Consiglio di Stato, "i provvedimenti impugnati (e la disciplina legislativa sulla cui base sono stati adottati) incidono direttamente su prerogative relative allo status di socio della banca popolare, così presentando profili di immediata lesività". Il Consiglio di Stato ha anche rinviato a una prossima camera di consiglio la trattazione nel merito della questione, dopo che la Corte costituzionale si sarà pronunciata. Dunque il pallino ora passa nelle mani della Consulta.
E, poco più di una settimana fa, la Consulta ha bollato come troppo centralista la riforma Madia, dal momento che per la sua attuazione non è in essa prevista come obbligatoria l’intesa con le Regioni. Queste ultime possono solo esprimere un parere, il che è stato giudicato insufficiente dalla Corte Costituzionale, che ha altresì bocciato quattro articoli della legge che riordina la pubblica amministrazione e che prende il nome da Marianna Madia, attuale ministro del governo Renzi. Il giudice delle leggi ha accolto il ricorso della Regione Veneto e ha smontato tre decreti attuativi che il mese scorso erano stati approvati a Palazzo Chigi e che riguardavano la dirigenza, le società partecipate e i servizi pubblici locali.
All’indomani di questa bocciatura, Renzi ha preso la palla al balzo per tuonare contro la burocrazia invadente e oppressiva e per rilanciare la battaglia per il “si” al referendum come grimaldello per cambiare le regole del titolo V della Costituzione e sbloccare i processi decisionali.
Ma qui la questione è completamente diversa. La riforma Madia era già stata criticata dal Consiglio di Stato, che, in particolare sui dirigenti pubblici, contestava proprio la loro nomina dallo Stato su una rosa di nomi proposti dalla Regione. "Una sentenza storica – ha esultato il governatore veneto Luca Zaia - . Siamo stati l'unica Regione d'Italia a portare avanti le nostre convinzioni. Il centralismo sanitario governativo ha ricevuto un duro colpo".
Per l'Alta corte, dunque, le direttive dei decreti attuativi della riforma della pubblica amministrazione ledono l'autonomia delle Regioni. Vuol dire che la legge delega è da rifare e che c'è il no ai dirigenti nominati dallo Stato. Inoltre, il pronunciamento della Corte significa che sono illegittimi gli articoli su società partecipate, servizi pubblici locali e pubblico impiego. Una débâcle, insomma, per il governo Renzi.
Pare che anche al Quirinale ci sia imbarazzo per queste continue “leggerezze” di Palazzo Chigi nella predisposizione di decreti attuativi e riforme inizialmente sbandierate come toccasana e poi falcidiate dagli organi di controllo costituzionale e di giustizia amministrativa. Non ne esce bene, alla vigilia del referendum, un esecutivo che ha fatto della semplificazione amministrativa uno dei suoi punti di forza. Se semplificare vuol dire smantellare e rendere più caotica la macchina dello Stato, accentrando le scelte fondamentali nei vertici dell’esecutivo allora meglio lasciare tutto com’è, nell’attesa di tempi migliori. A pensarlo sono in molti giudici e dirigenti pubblici, che hanno tirato un sospiro di sollievo di fronte alla bocciatura di parti della legge Madia. In ambito bancario, invece, la questione è decisamente più complessa perché gli interessi in gioco nella riforma delle Banche Popolari sono assai più elevati e il governo sta camminando sui carboni ardenti, sperando che il clima si rassereni. Ma non è detto che ciò accada, soprattutto se a vincere nelle urne referendarie fosse il “no”.