Gli Usa snobbano i perseguitati cristiani
Figli di un Dio minore. I cristiani perseguitati da maggioranze musulmane hanno più difficoltà ad ottenere visti di ingresso dagli Stati Uniti, anche solo per andare a parlare della loro condizione. E' capitato, la settimana scorsa, a suor Diana Momeka (dall'Iraq) e l'anno scorso a Jonah David Jang (Nigeria). Perché?
Suor Diana Momeka, irachena, cattolica, aiuta i profughi di ogni etnia e confessione che giungono a Erbil, quelli che riescono a fuggire dal territorio controllato dallo Stato Islamico. Invitata negli Stati Uniti a parlare della persecuzione dei cristiani iracheni, il Dipartimento di Stato le ha negato il visto. Solo una campagna di mobilitazione condotta da Newsmax, una Tv conservatrice, ha fatto sì che il caso Momeka venisse riaperto e alla fine la suora cattolica ha ottenuto il visto.
Potrebbe essere una storia edificante e con lieto fine, su come una piccola ma determinata mobilitazione popolare riesce a superare ogni ostacolo burocratico e ottenere che giustizia sia fatta. Potrebbe essere, addirittura, il soggetto di un piccolo film, come capita spesso in America. Ma il problema è molto più profondo di quanto non appaia inizialmente e possiamo star certi che non ci sarà alcun film su questo soggetto. La storia di suor Diana e del visto negato non è un caso isolato e non è il primo, soprattutto. Assieme alla religiosa cattolica, infatti, sono stati invitati musulmani e yezidi, a portare la loro testimonianza di perseguitati dall’Isis di fronte a senatori e deputati americani. Nessuno di loro ha incontrato problemi burocratici. Nel singolo caso di suor Diana, invece, il Dipartimento ha fatto eccezione, enunciando il motivo più frequente nel rifiuto dei visti. Scatta nel momento in cui il visitatore non ha una residenza e dei contatti sicuri nel paese di origine, dunque si sospetta che voglia trasferirsi in modo permanente negli Usa in modo abusivo. Obiettivamente si trattava di una giustificazione incredibile, soprattutto per una religiosa venuta a tenere conferenze proprio in tema di profughi e di persone che hanno perso la loro residenza in guerra, cioè persone che lei assiste direttamente. Ancor più incredibile pensare che sia stato applicato solo per suor Diana e non per yezidi che hanno perso tutto nella loro fuga dall’Isis.
Lo “sponsor” americano della religiosa, Johnnie Moore (autore di Sfida all’Isis, difendere il cristianesimo nella sua terra d’origine), ha portato il caso all’attenzione dei media. La Tv conservatrice Newsmax, benché sia tutt’altro che una corazzata mediatica (nulla di paragonabile alla Cnn) ha raccolto abbastanza proteste da parte della gente comune, ascoltatori, attivisti cristiani, semplici cittadini indignati dal caso, da far riaprire la pratica. A sostenere la campagna si è messo anche il senatore Newt Gingrich, conservatore, recentemente convertito al cattolicesimo, che ha minacciato di aprire un’inchiesta congressuale. “Questa è un’amministrazione – aveva dichiarato in un’intervista a Newsmax – che pare non trovare mai una ragione sufficiente per aiutare i cristiani, ma che trova sempre nuovi pretesti per scusarsi con i terroristi. Spero che questo caso giunga all’attenzione di John Kerry (segretario di Stato, ndr) e la decisione (dell’ufficio immigrazione, ndr) sia ribaltata. Nel caso non la sia, il Congresso condurrà un’indagine e il funzionario che ha preso questa decisione dovrà essere licenziato”.
Alla fine, dopo tanta pressione, il visto è stato concesso anche a suor Diana, venerdì scorso. Ma perché solo ed esclusivamente con l’unica ospite cristiana è successo? Si è trattato solo di una coincidenza? La burocrazia di Washington non ammetterà mai altri motivi. Il sospetto resta, perché la stessa sorte è toccata anche a un altro ospite cristiano proveniente da un paese in piena guerra di religione: Jonah David Jang, unico governatore cristiano di una delegazione di capi di stati locali del Nord della Nigeria (la parte a maggioranza musulmana). Solo a lui è stato negato il visto, nel marzo del 2014. Non avendo sponsor abbastanza insistenti e una campagna mediatica a suo favore, il suo caso non è stato neppure ripreso in considerazione. Lo United States Institute for Peace, organizzatore dell’evento a cui era invitato, aveva declinato ogni commento. Il caso si era chiuso in fretta. Il motivo era puramente amministrativo. Anche allora, comunque, il sospetto che si trattasse di discriminazione religiosa era molto forte. Emanuel Ogebe, avvocato e attivista per i diritti umani della Nigeria (basato negli Stati Uniti) ne è convinto. L’anno scorso dichiarava alla testata cristiana Wnd, che: “Gli Stati Uniti insistono nell’affermare che siano i musulmani le prime vittime di Boko Haram. Il governo afferma anche che i cristiani discriminino i musulmani nello stato di Plateau, che è uno dei pochi a maggioranza cristiana nel Nord (della Nigeria, ndr). Il governatore ha fatto notare loro che stavano ignorando i 12 stati in cui vige la shariah e dove le persecuzioni dei cristiani sono state istituzionalizzate e solo dopo di allora ha iniziato ad incontrare seri problemi burocratici per il suo visto di ingresso”.
Un’altra attivista nigeriana per i diritti umani, Ann Buwalda, del Jubilee Project, dichiarava, sempre a Wnd: “La mia personale impressione è che almeno parte dello staff del Dipartimento di Stato abbia una visione non equilibrata degli eventi, crede che la persecuzione dei cristiani sia sopravvalutata e che quella dei musulmani sia sottovalutata. L’imperativo che vige nel Dipartimento di Stato, inoltre, è quello di riferire quali siano le tendenze e le prospettive e questo provoca delle distorsioni, perché la continua violenza contro i cristiani non è affatto nuova, dunque viene riportata meno, o non riportata affatto. Un altro fattore importante è costituito dall’opera di documentazione di alcuni gruppi, compresi gruppi occidentali per la difesa dei diritti umani, che riferiscono solo di atti di violenza contro le comunità musulmane, spesso basandosi su informazioni aneddotiche, mentre sono ignorati gli atti di violenza contro le comunità minoritarie cristiane”. La stessa Ann Buwalda rivelava nell'intervista che il caso di Jang non fosse affatto il primo. La sorte toccata a suor Diana Momeka dimostra che non è stato nemmeno l'ultimo.
Lo stesso tipo di pregiudizio anti-cristiano potrebbe essere entrato in scena anche nel caso di suor Diana, infatti. D’altra parte, anche La Nuova Bussola Quotidiana notava come, nel rapporto di Amnesty International sui crimini in Iraq e Siria, le vittime cristiane della persecuzione venissero ignorate quasi completamente. E come, nel suo discorso sull’Isis, Obama nominasse la persecuzione di yezidi e musulmani, ma poco o nulla quella dei cristiani. Insomma, ci sono vittime di serie B e di serie A. I cristiani, agli occhi del governo americano sono figli di un Dio minore?