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VERSO LA BEATIFICAZIONE /2

Giovanni Paolo II, il catechista missionario

L'impegno di Karol Wojtyla nel rilanciare il Catechismo: sfidando i progressisti, esortò a riannunciare Cristo in un mondo nichilista.

Cultura 16_04_2011
Giovanni Paolo II

Un anno dopo l’elezione, il 16 ottobre 1979, Giovanni Paolo II promulgava un’esortazione apostolica, Catechesi tradendae, dedicata appunto alla catechesi. Essa raccoglieva i lavori svolti durante il Sinodo dei vescovi sulla catechesi nel 1977, durante il quale era stato relatore, e fin dalle prime parole emerge come il nuovo Pontefice intenda ricollegare il suo Magistero a quello del predecessore, in particolare sul tema della catechesi, ricordando gli interventi di Paolo VI, che aveva approvato nel 1971 il Direttorio per la catechesi preparato dalla Congregazione del clero e istituito nel 1975 il Consiglio internazionale per la catechesi, oltre ad averne esplicitamente scritto nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi sempre del 1975.

Nonostante la preoccupazione
di Paolo VI di legare evangelizzazione e catechesi e di sottolinearne l’importanza, quest’ultima attraversava una fase difficile perché era anch’essa vittima di un generale atteggiamento anti-dottrinale che era penetrato nella cultura dominante, particolarmente dopo il 1968, e poi anche nella Chiesa, sulla scia di uno stile che voleva privilegiare tutto ciò che è esistenziale contrapponendolo all’aspetto dottrinale della fede. Se è vero che il cristianesimo non è una dottrina, come Giovanni Paolo II ma in generale il Magistero sottolineano con frequenza, è vero che ha una dottrina e che quest’ultima viene trasmessa attraverso la catechesi, cioè l’insegnamento del contenuto della fede.

La catechesi risentiva di questo clima. Vi era un problema di dottrina della fede, che non cambia, e un problema di come trasmettere questa fede in una società che era cambiata profondamente da quando il Catechismo di san Pio X, imparato a memoria da tante generazioni, veniva insegnato e accolto in una società ancora cristiana. Il problema dunque che si profilava era che le persone non andavano più “a dottrina”, come si diceva allora, ancora fino agli anni Sessanta, e che dunque bisognava trovare il modo di avvicinare gli adulti che non frequentavano alcun tipo di catechesi e adattare il catechismo rivolto ai bambini in modo che la loro fede non fosse legata soltanto a un certo numero di formule imparate a memoria, ma cercasse di andare più in profondità e coinvolgesse tutta la loro esistenza. Questo adattamento, o aggiornamento, non fu facile anche perché ci fu chi cercò di negare che ci fosse una dottrina da insegnare, al di là del metodo con cui trasmetterla.

Ha scritto Sergio Lanza, ricordando come in quel contesto culturale successivo al 1968 si davano sempre meno “cristiani di nascita” e sempre più valeva il detto di Tertulliano che “cristiani non si nasce, si diventa”, che di fronte al problema della catechesi e di come farla c’erano allora tre posizioni. «Da un lato, coloro che insistono sulla via tradizionale (in realtà tradizionalista) della ribattitura delle forme e formule ereditate, per i quali il catechismo di san Pio X diventa un simbolo e una bandiera; - quanti, all’opposto, addossano ogni responsabilità proprio a quella forma troppo dottrinale (dicono), irrigidita in formulette e rinsecchita in domande e risposte; e propongono vari rimedi, giocati soprattutto sull’esistenziale e l’esperienziale (come se il sapere non fosse esso stesso – e primariamente – esperienza, certo a determinate condizioni). A questi si aggiungono coloro che, più radicalmente, stilano il certificato di morte della catechesi, affidandosi a forme di non meglio chiarita osmosi psicoreligiosa … - coloro infine che perseguono un consistente ma equilibrato rinnovamento della catechesi e dei catechismi, convinti che dal passato ci sia molto da imparare, ma molto poco da ripetere» [Promuovere e rinnovare la catechesi (Catechesi tradendae – 1979), in Prendere il largo con Cristo. Esortazioni e Lettere di Giovanni Paolo II, a cura di Graziano Borgonovo e Arturo Cattaneo, Cantagalli, Siena 2005, p. 30].

Una definizione «… La catechesi è un'educazione della fede dei fanciulli, dei giovani e degli adulti, la quale comprende in special modo un insegnamento della dottrina cristiana, generalmente dato in modo organico e sistematico, al fine di iniziarli alla pienezza della vita cristiana. A questo titolo, senza confondersi formalmente con essi, la catechesi si articola in un certo numero di elementi della missione pastorale della chiesa, che hanno un aspetto catechetico, preparano la catechesi o ne derivano: primo annuncio del vangelo, o predicazione missionaria mediante il kèrigma per suscitare la fede; apologetica o ricerca delle ragioni per credere; esperienza di vita cristiana; celebrazione dei sacramenti; integrazione nella comunità apostolica e missionaria» (Catechesi tradendae, n. 18). Essa non dovrebbe essere confusa con il primo annuncio con il quale si cerca di suscitare la fede e tuttavia, nota Giovanni Paolo II, spesso deve farsi carico anche di questo aspetto in qualche modo iniziale dell’itinerario di fede, laddove incontra bambini che hanno soltanto ricevuto il battesimo e poi null’altro, oppure adulti pieni di dubbi sulla fede (cfr. Catechesi tradendae, n. 19). Né si deve accettare l’atteggiamento di chi contrappone l’insegnamento sistematico e dottrinale all’esperienza vitale (cfr. Catechesi tradendae, n. 22). Naturalmente, perché sia efficace, la catechesi deve rispondere ad alcuni requisiti. In primo luogo, deve essere integrale, «non mutilata, non falsificata, non diminuita, ma completa e integrale, in tutto il suo rigore e in tutto il suo vigore» (Catechesi tradendae, n. 30). Dovrà anche favorire il movimento verso l’unità fra i cristiani, scegliendo di essere leale nel presentare le diversità che separano i cattolici dalle altre comunità cristiane, senza polemiche inutili e dannose che nuocerebbero appunto al raggiungimento dell’unità (cfr. nn. 32,33).

L’esortazione apostolica affronta poi il rapporto fra il Vangelo e le culture per quanto riguarda la catechesi. Quest’ultima per essere efficace deve tenere conto delle caratteristiche delle persone cui si rivolge, se giovani o adulti, per esempio, ma anche della cultura originaria. Infatti, se è vero che il Vangelo trasforma e rigenera le culture con le quali entra in rapporto, è anche vero che l’evangelizzazione e la catechesi devono tenere conto dell’ambiente culturale all’interno del quale operano: «Gli autentici maestri in catechesi sanno che una catechesi “s'incarna” nelle differenti culture o nei differenti ambienti: basta pensare ai popoli tanto diversi, ai giovani del nostro tempo, alle circostanze diversificate in cui si trova la gente al giorno d'oggi; essi non accettano, peraltro, che la catechesi s'impoverisca con l'abdicazione o l'attenuazione del suo messaggio, a causa di adattamenti, anche di linguaggio, che comprometterebbero “il buon deposito” della fede, o a causa di concessioni in materia di fede o di morale; essi sono persuasi che la vera catechesi finisce per arricchire queste culture, aiutandole a superare i lati deficienti, o addirittura inumani esistenti in esse, e comunicando ai loro valori legittimi la pienezza del Cristo» (Catechesi tradendae, n. 53).

La memorizzazione. L’ultima questione metodologica che affronta il documento di Giovanni Paolo II riguarda la memorizzazione, contro la quale si sono scagliate tante voci negli anni successivi al 1968 in preda a una sudditanza ideologica verso gli aspetti anti intellettuali e spontaneistici del clima sessantottino. Il Papa sottolinea gli aspetti positivi della memorizzazione: «Bisogna essere realisti. I fiori della fede e della pietà – se così si può dire – non spuntano nelle zone desertiche di una catechesi senza memoria. La cosa essenziale è che questi testi memorizzati siano al tempo stesso interiorizzati, compresi a poco a poco nella loro profondità, per diventare sorgente di vita cristiana personale e comunitaria». Sempre per essere realisti, quindi, Giovanni Paolo II non nega l’insufficienza della memorizzazione, raccomanda di favorire in ogni modo qualsiasi approfondimento, ma pone la domanda più giusta a tutti questi strani detrattori del Catechismo di san Pio X, appunto perché troppo mnemonico: non sarà che si stia sbagliando obiettivo, sembra chiedersi il Pontefice, pensando che il problema della crisi della catechesi stia nella ripetitività di formule estranee, quando invece proprio la memoria può aiutare in modo singolare a recuperare quanto abbiamo perduto o non abbiamo neppure ricevuto? Il Papa scriveva queste parole nel 1979. Bisognerà attendere il 1992 per vedere il frutto del Sinodo dei vescovi e della esortazione apostolica, l’anno in cui verrà promulgato il Catechismo della Chiesa Cattolica.

Il dono più grande, un catechismo universale. Il dono più grande è ciò che più rimane nel tempo, resistendo all’usura degli avvenimenti che si susseguono, in qualche modo facendo perdere importanza ai precedenti. Il dono più grande di Papa Giovanni Paolo II è lui stesso, la sua santità, la sua azione nella storia che, nella misura in cui è stata docile allo Spirito Santo, ha potuto operare contro il male e creare condizioni sociali e culturali favorevoli alla salvezza e alla santificazione di tante anime. Una lotta “dentro” la storia di cui il Papa era perfettamente consapevole, come appare fra l’altro nell’esortazione apostolica Reconciliatio et poenitentiae e nell’enciclica Evangelium vitae, un documento, quest’ultimo, che testimonia nel 1995, dopo lo scontro epocale con l’impero socialcomunista, come il Pontefice sapesse che l’azione divina incontra sempre nuovi ostacoli e nemici che cercano di impedirne l’azione salvifica a vantaggio delle anime e delle nazioni. Tuttavia, ciò che a mio avviso va soprattutto valorizzato, dopo la santità, è il suo Magistero e fra questo indubbiamente il Catechismo della Chiesa Cattolica ha un ruolo di assoluta importanza. Di santi ve ne sono molti anche nell’epoca moderna, grazie a Dio, ma il suo Magistero rimarrà unico e irripetibile.

Bisogna andare
al 1985 per comprendere la genesi di questo grande evento dottrinale ed ecclesiale. In quell’anno viene convocato un Sinodo straordinario a 20 anni dalla conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II. Anche questo è stato un evento importante nella vita della Chiesa perché in qualche modo ha concluso l’epoca post-conciliare. Infatti, nei lavori sinodali viene stabilita definitivamente la centralità del Concilio nell’azione pastorale della Chiesa, ma viene anche riconosciuto come sia un Concilio, il ventunesimo, non il primo né tantomeno l’unico Concilio. Inoltre viene auspicata la ricezione, cioè lo studio dei suoi documenti, a prescindere dalle interpretazioni e dai desideri di chi ha cominciato ad auspicare un Concilio Vaticano terzo già durante il pontificato di Paolo VI. Lo scopo del Sinodo non era di relativizzare o calmierare il Vaticano II, quasi fosse stata una parentesi da dimenticare al più presto, ma al contrario di restituirne l’ispirazione originaria, quella indicata per esempio nel discorso di apertura del beato Giovanni XXIII, indicato dal suo successore Giovanni Paolo II come l’inizio della nuova evangelizzazione.

Lo scopo insomma era di mettere in luce l’intenzione missionaria del Vaticano II, che era il contrario del modo pieno di complessi d’inferiorità con cui si viveva il cattolicesimo in molte diocesi occidentali negli anni del cosiddetto post-Concilio. Un Concilio pastorale, dunque, volto a porgere il Vangelo di sempre a un uomo culturalmente trasformato da quasi due secoli di modernità, che lo avevano allontanato dalla fede. Una cultura per due secoli dominata da ideologie anticristiane si scopriva incapace di sostituirsi al cristianesimo che aveva combattuto: iniziava così l’epoca post-cristiana e post-moderna, dove ci si rendeva conto che la riduzione della fede a fatto privato non aveva migliorato la vita pubblica, non aveva evitato due guerre mondiali, aveva portato il benessere economico in una parte del mondo, ma non aveva risolto molti altri problemi e, in compenso, ne aveva creati di nuovi.

Ma soprattutto aveva allontanato l’uomo dal pensiero del suo destino eterno, della salvezza della sua anima, immergendolo prima del 1989 nell’ebbrezza delle ideologie, poi nella «dittatura del relativismo». Nell’arco della modernità, l’uomo occidentale era così passato dalla venerazione del frammento ideologico come fosse la chiave per spiegare il tutto e raggiungere la felicità sulla terra, alla completa assenza di significato, alla perdita di ogni speranza, alla disperazione esistenziale “segnata” da relativismo e nichilismo. Così almeno è avvenuto in Europa, nel mondo occidentale, “sazio e disperato” di fronte alle altre culture e civiltà, che se appaiono deboli in Africa si presentano invece aggressive in Asia, dalla Cina all’India, e nelle diverse forme del mondo islamico. In questo mondo il cattolico avrebbe dovuto muoversi per operare una nuova evangelizzazione, una seconda evangelizzazione dell’Occidente dopo l’esaurimento della prima cominciata con l’ingresso di san Paolo in Macedonia e terminata con le guerre di religione e la secolarizzazione successiva alla Rivoluzione del 1789.

Il Concilio, secondo i suoi documenti, avrebbe così dovuto rilanciare un nuovo spirito missionario, attento non tanto a condannare gli errori che avevano generato la tristezza dei tempi, ma a usare la medicina della misericordia, riproponendo la Verità che salva in un modo che tenesse conto delle condizioni dell’uomo del tempo. Perché questo accadesse sarebbe però stato necessario che il Concilio venisse letto e accolto nella sua intenzione originaria, quindi trasmesso fedelmente. Non è andata così.

Per vent’anni nelle diocesi occidentali
si è assistito a una disputa intraecclesiale snervante e devastante, frutto di un neo-modernismo che Maritain avrebbe definito con toni drammatici nel suo libro Il contadino della Garonna. Questa disputa avrebbe prodotto contestazioni, reazioni scandalizzate, eresie e scismi, insomma un tempo di amarezza e di dolore, di divisioni fraterne, le cui ferite provocate allora continuano a sanguinare ancora oggi. Tutto questo ha reso difficile nella Chiesa la testimonianza della vocazione missionaria: divisi non si convince, si è meno credibili, soprattutto poi se una delle cause della divisione è proprio il rifiuto della missionarietà, una delle principali caratteristiche del progressismo. Il Sinodo del 1985 a vent’anni dalla fine del Concilio in qualche modo ha posto fine a tutto questo. Il Vaticano II non era in discussione ma doveva essere il Concilio dei documenti e per la missione, non un’occasione per creare una nuova religione in sintonia con lo spirito del tempo e con le altre religioni. Facendo perno su Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, ieri, oggi e sempre, come ricorderà la dichiarazione della Congregazione della dottrina della fede Dominus Jesus del 6 agosto 2000 sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, sarebbe potuta partire la seconda evangelizzazione, attraverso il dialogo, rinunciando ai privilegi di cui la Chiesa aveva beneficiato nell’epoca delle società cristiane, “abbattendo i bastioni” non per lasciarsi invadere ma per andare a parlare con chi in Chiesa non veniva più.

I documenti del Vaticano II e la missione diventavano così il campo di battaglia, perché studiando i documenti ci si rende conto dell’intenzione missionaria dei padri conciliari. E tuttavia, trent’anni dopo la chiusura dei lavori, nel 1995, in occasione dell’uscita del primo volume di una storia del Concilio diretta da Giuseppe Alberigo, la questione della contrapposizione fra lo spirito profetico del Concilio e la “banalità” dei documenti, sarebbe riemersa ancora una volta. «Così il Vaticano II è stato conosciuto un po’ troppo astrattamente, quasi fosse solo un insieme – sovrabbondante fino all’eccesso! – di testi», scrive Alberigo nella premessa della sua opera sul Concilio (AA. VV., Il cattolicesimo verso una nuova stagione. L’annuncio e la preparazione, gennaio 1959-settembre 1962, vol. I della Storia del Concilio Vaticano II diretta da G. Alberigo, il Mulino, 1995, p. 549). <

Alla fine delle due settimane in cui si svolsero i lavori sinodali, i padri chiesero un nuovo catechismo che offrisse al popolo disorientato un punto di riferimento autorevole, una bussola per orientarsi. Era la richiesta di quello che sarà il Catechismo della Chiesa Cattolica. Istituita una commissione, presieduta dal card. Ratzinger, nel 1986 cominciarono i lavori che portarono nel 1992 alla pubblicazione della prima edizione in lingua italiana, mentre nel 1997 sarà pronta l’edizione tipica latina, quella definitiva. Poi, nel 2005, il Compendio, cioè la sintesi. Il Catechismo riprende la struttura del Catechismo tridentino, diviso in quattro parti, che rispondono alle domande in che cosa si crede, come si celebra, come ci si deve comportare e come ci si deve rivolgere a Dio nella preghiera. Ma il Catechismo ha anche una ricchezza di riferimenti tratti dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione vivente della Chiesa, dai Padri, dai Dottori e dai santi che ne hanno “segnato” la storia, oltre appunto dai documenti del Vaticano II.

Il Catechismo deve ancora dare i suoi frutti. Il card. Ratzinger, dieci anni dopo la sua pubblicazione, nel 2002, lo ha ricordato in un intervento. «Chi ricerca nel Catechismo un nuovo sistema teologico o nuove sorprendenti ipotesi, sarà deluso. Questo tipo di attualità non è preoccupazione del Catechismo. Esso offre, attingendola alla Sacra Scrittura e alla ricchezza complessiva della tradizione nelle sue molteplici forme così come ispirandosi al Concilio Vaticano II, una visione organica della totalità della fede cattolica, che è bella proprio come totalità – di una bellezza, nella quale riluce lo splendore della verità. L’attualità del Catechismo è l’attualità della verità nuovamente detta e nuovamente pensata. Questa attualità resterà tale ben al di là dei mormorii dei suoi critici» (card. Joseph Ratzinger, Attualità dottrinale del Catechismo della Chiesa Cattolica, dopo 10 anni dalla sua pubblicazione, intervento al Congresso Catechistico promosso dalla Congregazione per il Clero, 8 ottobre 2002).

Ma affinché possa dare dei frutti è necessario che prima sia studiato. Oggi, che la Chiesa ha messo a disposizione dei fedeli anche il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, cioè una sintesi del catechismo che era stato ritenuto da molti troppo impegnativo, i frutti che potrebbe far maturare dipendono veramente soprattutto da noi.