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UNESCO

Gerusalemme islamica? L'Italia evita la figuraccia

L'Unesco rivela la sua politicizzazione e avversione a Israele, negando ogni legame storico millenario fra Gerusalemme, l'ebraismo e la cristianità. L'Italia, nonostante la sua chiacchierata astensione, evita la figuraccia e corregge il tiro. Ma serve un dialogo più profondo: fra religioni, non solo fra governi.

Esteri 02_11_2016
Gerusalemme

L’Unesco ha confermato in uno dei suoi più importanti organi operativi, il World Heritage Committee, preposto al Patrimonio mondiale dell’umanità, la sua caparbia avversione a Israele negando, ancora una volta, il legame millenario tra gli ebrei e Gerusalemme ed evidenziando soltanto il suo patrimonio musulmano. E, come al solito, non tiene in considerazione che lo stesso luogo è santo per la Cristianità.

A Roma, alla Camera dei Deputati, avveniva l’atteso chiarimento della politica italiana per Gerusalemme con la risposta del ministro degli Esteri Gentiloni a ben tre interrogazioni parlamentari sulla deplorata astensione nella votazione al Consiglio dell’Unesco (definita, come è risaputo, “allucinante” dal Presidente del Consiglio Renzi). Chiarimento importante perché avvenuto alla vigilia quasi della visita di stato del Presidente della Repubblica Mattarella in Israele. Gentiloni ha ricordato che la negazione dei luoghi santi ebraici di Gerusalemme viene sottoposta a votazione due volte l’anno, dal 2010 ad oggi, al Consiglio esecutivo dell’Unesco. L’Italia si è sempre astenuta in sintonia con gli altri paesi dell’Unione Europea (quindi perché sorprendersene soltanto adesso, avrebbe potuto chiedersi) ma con l’intento – ha spiegato – di superare, o quanto meno ammorbidire, contrapposizioni storicamente e religiosamente insostenibili. Non essendoci riuscita, la prossima volta, quando la risoluzione sarà ripresentata, passerà dall’astensione al voto contrario.

Quindi, tirandosi abilmente fuori da una situazione proprio imbarazzante, la figuraccia del “sistemico” voto di astensione, Gentiloni ha fatto ricorso ad una frase lapidaria – “Non possiamo accettare che l’Unesco diventi cassa di risonanza di tensioni politiche” – per aprire la nostra diplomazia ad un impegno dinamico e propositivo che ha istradato su tre direttrici. Ha dischiuso lo scenario innanzitutto sull’intesa che Israele ha sempre cercato per Gerusalemme con la vicina Giordania, nel rispetto del patronato che la monarchia hashemita esercita sulla Spianata delle Moschee, nella convinzione che questa sia proprio la via migliore per la coesistenza interreligiosa nella Città Santa. Ha poi evocato la riattivazione, ritenuta certo molto difficile, ma considerata necessaria, del dialogo di pace israelo-palestinese, sulla base del principio dei due Stati che vivano in condizione di pace e sicurezza reciproca. Infine ha annunciato che proseguirà il tentativo di persuasione, diremmo di “purificazione”, dell’Unesco da intromissioni, e persistenti strumentalizzazioni politiche, estranee alle sue importanti finalità culturali; perché  svolga quella  missione istituzionale a cui l’Italia, che vanta un ricco patrimonio mondiale, tiene moltissimo.

Tutte e tre le strade dovrebbero essere condivisibili, di ragionevole percorribilità, e invece le prime due sono lastricate da avversioni e ostilità radicate, la terza avvelenata da una diffusa prevenzione da sembrare inestirpabile. Soprattutto perché mai il mondo musulmano potrà accettare quel che ha sempre rifiutato, un compromesso sulla sovranità religiosa e politica di Gerusalemme. Come rifiutò l’internazionalizzazione della città, contemplata dalla risoluzione del 1947 delle Nazioni Unite; come promosse e combatté tre guerre contro Israele per opporsi anche alla nascita dello stato ebraico (previsto insieme con quello arabo); e come approvò l’affossamento a opera dei presidenti palestinesi Arafat e Abu Mazen di ogni compromesso di pace per la città, così anche oggi, e a maggior ragione, lo dovrà fare. E’ un mondo che oggi si sente più forte sul piano religioso grazie al crescente fondamentalismo islamico, alla sua radicalizzazione nella società palestinese, (dimostrata dall’esercizio del potere da parte di Hamas nella striscia di Gaza) e alla incessante espansione demografica dell’Islam nel continente europeo. Le divisioni tra Islam sunnita e Islam sciita, oggi degenerate anche in conflitti, non incidono per nulla sul tema Gerusalemme.

I nazionalisti palestinesi, naturalmente, evitano di evocare il patronato della monarchia hashemita sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, terzo luogo santo dell’islam. Non vogliono neanche ricordare che essa vanta la discendenza dal profeta Maometto e che fino al secolo scorso, quando fu detronizzata dalla famiglia Saudita, esercitò la sovranità sull’ Arabia e i due maggiori luoghi santi. Denunciano invece che essa, al pari dell’Egitto, ha stipulato un trattato di pace con Israele. Che a sua volta, e da prima ancora del trattato, ha cercato e stabilito i migliori rapporti di buon vicinato, operando con grande accortezza e sostanziale rispetto. Gentiloni, a conoscenza di questa storia, ben punta a tenerla in grande considerazione. Avendo presente fra l’altro che la Giordania da sempre assicura la massima libertà ai cristiani arabi e presiede organismi molto attivi nel dialogo interreligioso. 

Sulle possibilità di ripresa del negoziato di pace israelo-palestinese l’Italia, come peraltro l’Unione Europea, guardano con speranza, pur nella consapevolezza del fallimento di tutte le soluzioni di compromesso cercate e offerte nell’ultimo ventennio. È pure fin troppo evidente che l’Autorità Palestinese stia cercando di conseguire l’obiettivo della nascita dello stato indipendente surrettiziamente, solo attraverso le Nazioni Unite, grazie al sostegno della maggioranza dei paesi che ne fanno parte. Ma è pure risaputo che Israele non accetterà mai una scappatoia alle trattative dirette.  I paesi  mediatori piuttosto di puntare prioritariamente sulle doglianze palestinesi dell’espansione delle colonie ebraiche, e israeliane della sicurezza dello stato ebraico – temi beninteso importantissimi – cerchino di far accettare alle parti  altre necessità che aprano alla comprensione e accettazione reciproca: come l’alleanza tra le famiglie delle vittime del terrorismo e delle violenze; la revisione dei testi storici e geografici, soprattutto nelle scuole; lo studio di discipline comparate (diritto, lingue, religioni,  letteratura); lo scambio di docenti nelle università. E’ ancora presto per tentare di ricostituire imprese con personale misto, distrutte dall’invidia prodotta dalla prima Intifada.

Sulla ricomposizione di un ragionevole modo di intendersi non solo all’Unesco ma anche in altri organismi delle Nazioni Unite, con il superamento di preconcetti e smanie di grandezza, delle pretese di riscrivere la storia civile e religiosa, di partiti presi e di quant’altro espresso dall’orgoglio e dalla presunzione umana, l’Italia e certo altri paesi hanno tantissimo da fare. La situazione è degenerata a tal punto (Israele, definendo “spazzatura” le risoluzioni dell’Unesco, ha ritirato il suo ambasciatore dall’ONU) da suscitare serie preoccupazioni. Soprattutto per la strumentalizzazione di Gerusalemme a opera dei fondamentalisti islamici, interessati come sono a un conflitto religioso su scala mondiale.

Un aiuto potrebbe, e dovrebbe, venire da personalità e istituzioni religiose che operano nella verità per la pace. Non solo agendo con discrezione, come certamente le più responsabili faranno nelle sedi opportune, ma anche prendendo posizione. Come quella del vescovo di Frosinone Ambrogio Spreafico, quale presidente della Commissione per il dialogo interreligioso della CEI. Israele, tramite il presidente della Knesset Yuli Edelstein, denunciando l’“affronto recato (dall’Unesco) a cristiani ed ebrei” ha addirittura fatto un pubblico appello al segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin chiedendogli di “usare i suoi migliori uffici e impedire il ripetersi di sviluppi di questo genere”.