Fuga, emigrazione, integrazione: l'esempio di Mehereta
Fuga dal proprio paese, attraversata nel deserto, inserimento in una società del mondo industriale, una vita che ricomincia da capo. E' ciò che vivono milioni di emigranti. Qui raccogliamo la testimonianza di Mehereta Baruch Ron, vicesindaco di Tel Aviv, giunta in Israele dall'Etiopia a 10 anni: un esempio di come un'integrazione di successo sia possibile.
Attraversate nel deserto, attraversate del mare, anni nei campi profughi, inserimento in società aliene, problemi di integrazione: sono diventate esperienze comuni a milioni di persone che emigrano dal Sud al Nord del mondo, dall’Africa all’Europa soprattutto. Israele ha incoraggiato l’immigrazione di tutte le comunità ebraiche, nella maggior parte dei casi perseguitate nelle loro terre, l'ultima (e meno inserita) delle quali dall’Etiopia, giunta a seguito due esodi organizzati, l’Operazione Mosè e l’Operazione Salomone. A Milano abbiamo incontrato una di loro, Mehereta Baruch Ron. Fino a 10 anni ha vissuto in Etiopia, in un villaggio di pastori, analfabeta e ignara dell’esistenza del resto del mondo. Dopo l’Operazione Salomone è giunta in Israele: un mondo completamente diverso dal suo. Oggi, a 41 anni, è vicesindaco di Tel Aviv, cuore economico di Israele. Ed è una delle migliori storie di successo degli immigrati, un esempio per tutti coloro che vogliono integrarsi. Anche se non è tutto oro, quel che si può trovare nella società che ti accoglie.
La storia di Mehereta ha tutte le caratteristiche dell’esodo verso la libertà. “Gerusalemme era un sogno per noi, da anni. Era il sogno di poter praticare l’ebraismo da uomini liberi”. Ma “quel che i miei genitori avevano sottovalutato o ignorato era la durezza del viaggio”. L’idea dell’emigrazione nasce nei primi anni Ottanta, quando un passaparola fra città e villaggi diffonde la notizia che Israele è pronta ad accogliere la comunità ebraica più isolata del mondo. L’Etiopia non era solo un paese dove si moriva letteralmente di fame, ma negli anni Ottanta era anche una dittatura comunista. Come tutte le altre analoghe dittature, non permetteva l’espatrio. Così la famiglia di Mehereta si è dovuta spostare in clandestinità, con una lunga fuga nel deserto. “Erano circa ottocento chilometri, che abbiamo dovuto percorrere a piedi, con l’aiuto di qualche mulo. Avevo nove anni e mezzo. Dovevamo spostarci solo di notte, per nasconderci dalla polizia. Solo quando eravamo lontani da zone abitate, potevamo percorrere la strada anche di giorno. E’ stata un’esperienza mistica: abbiamo preparato a lungo cibo secco e ben conservabile per la marcia, che era come la matzah, il nostro pane rituale non lievitato, per cibare decine di persone in cammino nel deserto, verso Gerusalemme. Solo dopo tre settimane di marcia abbiamo raggiunto il campo profughi in territorio sudanese. Noi siamo stati molto fortunati, perché non abbiamo avuto problemi seri, mentre altri gruppi sono stati attaccati da briganti, nel deserto”.
Il campo profughi della Croce Rossa era tutt’altro che una terra promessa. Benché nutriti, assistiti e curati, un quarto della popolazione di quelle tendopoli è morta di malattia. Quando Mehereta è giunta al campo ha realizzato che là c’erano famiglie ferme anche da un anno e mezzo, sempre in attesa dell’agognato passaggio per Gerusalemme. Lei, personalmente, è stata fortunata: dopo appena sei mesi è stata imbarcata in uno dei voli segretamente organizzati da Mossad, il servizio segreto israeliano: infatti non c’era alcun contatto diplomatico fra Gerusalemme e Khartoum e tutta l’operazione è stata gestita in segreto. Solo Mehereta è arrivata in Israele, non la sua famiglia: nel frattempo i voli (per le rivelazioni imprudenti rilasciate alla stampa da un ministro israeliano) erano stati scoperti e interrotti per anni. E così la famiglia è rimasta indietro.
Tutto questo avveniva tra la fine del 1984 e l’inizio del 1985. “Per sei anni sono stata separata dalla mia famiglia e mi sono sempre chiesta se li avessi mai potuti rivedere. Sono stata ‘assorbita’ da Israele attraverso una serie di orfanatrofi e scuole per profughi”. L’impatto con una società completamente diversa è stato sorprendente: “Mio nonno descriveva Gerusalemme come una terra dei sogni, un Eden, dove latte e miele erano per tutti. La modernità per me è stata una rivelazione magnifica, anche se quel che ho visto da subito era chiaramente molto diverso da quel che mi immaginavo dai racconti. Nella mia prima giornata ho visto per la prima volta la luce elettrica a scuola. Non sapevo leggere e scrivere, nemmeno nella mia lingua. E’ stato per me come nascere una seconda volta. Ma non ricordo grandi difficoltà di inserimento. Ero preoccupata per la mia famiglia, soprattutto. Quello era il mio pensiero fisso. Ma per il resto, ero messa di fronte a un fatto compiuto. Come essere buttata in piscina e aver dovuto imparare a nuotare per non affogare, una condizione che mi ha aiutato molto a crescere in fretta. Ora ho una laurea in psicologia e un master in sociologia”. Sulla sua idea politica dice semplicemente che: “Quando vedo qualcuno che è molto in difficoltà, che è pessimista, che è sfiduciato sul futuro, gli racconto la mia storia. Spero di dargli speranza, in questo modo: se ce l’ho fatta io, partendo da zero, ce la può fare anche lui. E’ possibile”.
A Tel Aviv, tuttavia, il maggio scorso la comunità etiope è insorta. La causa è stato un episodio di razzismo: un poliziotto ha picchiato un soldato di leva etiope, senza un valido motivo. L’insurrezione si è diffusa a macchia d’olio fra gli ebrei etiopi, che non si sentono pienamente accettati dai loro concittadini di origine europea e mediorientale. La Baruch Ron, vicesindaco, ha fatto la spola fra la polizia e i manifestanti, durante tutta la protesta. “Gli etiopi troppo giovani per aver vissuto l’esperienza dell’emigrazione, non sanno bene a quale popolo appartengono. Si sentono confusi. Non si può dire che ci sia una discriminazione legale nei loro confronti: sono uguali a tutti gli altri cittadini, di fronte alla legge. Ma nella società, non tutti li accettano. Io capisco i manifestanti, le ragioni della loro rabbia. Molti di loro si sentono frustrati, emarginati”. Dopo le manifestazioni di maggio: “il governo ha affrontato seriamente il loro problema, con programmi di educazione e di sostegno abitativo. Nel lungo periodo, questo percorso è toccato a tutti i nuovi arrivati in Israele. Ora è il nostro turno, ma dopo la Shoah anche gli ebrei tedeschi, come il padre di mio marito, erano guardati come degli estranei”.
In questi casi si parla sempre di comunità ebraiche. Ma con le altre religioni? “Tel Aviv è, in generale, una città molto aperta. Jaffa è prevalentemente araba e musulmana. Abbiamo dato ospitalità a moltissimi rifugiati dall’Africa, specie dal Darfur e dall’Eritrea. Anche quando il conflitto in Palestina si intensifica, come sta avvenendo in questi ultimi mesi, le relazioni fra le varie comunità nella nostra città restano molto più distese”. La vicesindaco israeliana è a Milano in questi giorni per presentare le opere di giovani artisti immigrati provenienti dalla Casa della Carità e dal Bialik-Rogozin Campus, presso la Fondazione Arnaldo Pomodoro. Il Campus è frequentato da giovani di 51 paesi del mondo. “Quando li guardi in volto, cogli subito la potenzialità di questi ragazzi, l’energia della gioia di vivere, la sensazione che la pace sia possibile”. Eppure di pace non se ne vede molta in Medio Oriente. E Israele segue una politica di respingimenti. “All’inizio le frontiere erano aperte – ci spiega la vicesindaco di Tel Aviv – e tutti si stavano riversando in Israele. Attualmente un cittadino su nove, nella nostra città, è un rifugiato. Non è poco. Io non penso che, quello delle emigrazioni di massa, sia un fenomeno che non riguarda solo la nostra regione del mondo, perché sta accadendo ovunque. E' un evento epocale, dovuto alla globalizzazione. Non dobbiamo trattare i nuovi arrivati come persone che ci rubano il lavoro e le risorse, dobbiamo valorizzare il loro contributo alla nostra società, che sarà anche culturale, nel lungo periodo. Ma penso che sia un nostro dovere fornire loro l’educazione. Altrimenti scoppierebbero sempre conflitti”.