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CAMERUN/ LA TESTIMONIANZA

Fratel Fabio aiuta sempre tutti, terroristi compresi

Gestire una grave emergenza umanitaria piantando nel frattempo semi per un futuro di pace. È quel che i missionari del Pime, insieme alla Caritas locale, tentano di fare nel nord del Camerun da quando lo scorso anno il Paese è stato coinvolto nel jihad, la guerra santa islamica scatenata dai terroristi Boko Haram. 

Ecclesia 26_05_2015
Profughi in un campo nigeriano

Gestire una grave emergenza umanitaria piantando nel frattempo semi per un futuro di pace. È quel che i missionari del Pime (Pontificio istituto missioni estere), insieme alla Caritas locale, tentano di fare nel nord del Camerun da quando lo scorso anno il paese è stato coinvolto nel jihad, la guerra santa islamica scatenata dai terroristi Boko Haram nella vicina Nigeria. A loro si devono una serie di progetti assistenziali destinati agli sfollati camerunesi: quelli messi in fuga dai Boko Haram che sconfinano in Camerun e quelli deportati dal governo che, per meglio combattere i jihadisti, ha svuotato di abitanti una fascia di territorio larga 20 chilometri lungo la frontiera con la Nigeria. 

L’assistenza si estende anche, benché non ufficialmente, ai profughi provenienti dalla Nigeria, in cerca di scampo alla violenza dei terroristi: decine di migliaia di persone fuggite senza il tempo di prendere e portare con sé qualcosa. I Boko Haram quando attaccano i villaggi uccidono chiunque venga loro a tiro, poi saccheggiano abitazioni e negozi e infine radono al suolo ogni edificio con il fuoco: il tempo per scappare è poco. Per una parte dei profughi nigeriani e degli sfollati camerunesi – circa 45.000-48.000 persone – l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha creato un campo che il governo ha voluto fosse allestito 250 chilometri più a sud, per ridurre il rischio che, come quasi sempre succede in casi come questo, tra i profughi ospitati si infiltrino i terroristi. Pime e Caritas si prendono cura degli altri profughi, interni e stranieri, quelli che non vogliono o non possono andare così lontano. 

In questi giorni in Italia a spiegare che cosa succede in Camerun è fratel Fabio, rientrato in patria per qualche settimana in cerca di fondi per le iniziative in atto. La crisi attuale – spiega durante gli incontri organizzati da parrocchie e associazioni – ha aggravato una situazione già molto difficile anche in tempi normali. «Migliaia di persone disperate si sono riversate nelle aree in cui operiamo. Facciamo quel che possiamo con i mezzi a nostra disposizione: ed è forse questa la cosa più difficile da spiegare in Italia, il fatto che non si possono salvare tutti, che bisogna fare i conti con i nostri limiti in termini di risorse e di uomini, ben sapendo che per tanti che riusciamo ad aiutare, tanti di più avrebbero altrettanto bisogno di noi. Allo stesso modo, dobbiamo lavorare disposti a ricominciare da zero non una, ma cento volte perché quel che costruiamo con mesi e anni di lavoro, in tempo di guerra può andare perduto in poche ore». 

La priorità va ai bambini con, tra l’altro, campagne di vaccinazione contro la meningite, che in Camerun è endemica, e un programma alimentare per quelli denutriti – tra gli sfollati il 50% – che vengono curati a gruppi di 300 per volta, ciascuno per la durata di due mesi, il tempo necessario al loro recupero.  Nella fascia lungo la frontiera sono state chiuse 170 scuole, lasciando a casa 5.400 alunni. I missionari ne hanno quindi accolti 475 nelle loro scuole già frequentate da mille bambini. Prima le classi era composte da 50-60 alunni, ora in ogni classe ce ne sono fino a 120: «ma è essenziale far andare a scuola i ragazzini», spiega fratel Fabio, «per sottrarli a Boko Haram. Chi non va a scuola o non lavora è allettato a unirsi ai terroristi: le reclute ricevono una paga pari a 300-350 euro e un fucile che li fanno sentire onnipotenti». Per far fronte all’accresciuta richiesta di assistenza sanitaria sono stati istituiti nel 2014 degli ambulatori mobili, ciascuno dotato di tre infermieri. La scorta dei medicinali è continuamente controllata durante il trasporto per far sì che niente venga consegnato ai Boko Haram dai loro fiancheggiatori che non mancano tra la popolazione. 

Ai programmi assistenziali si affiancano per quanto possibile iniziative di riconciliazione: «un compito estremamente difficile», spiega ancora il missionario del Pime, «ma cruciale per una futura pace duratura. Molti sono quelli che hanno perso casa e beni, che sono stati seviziati, violentati, che hanno subito la perdita di famigliari, uccisi o rapiti dai jihadisti. Tutti hanno bisogno di essere aiutati a placare il desiderio di vendetta, l’odio nei confronti di chi ha causato loro sofferenze e danni irreparabili. Inoltre quasi tutti sono affetti da gravi forme di stress post traumatico. Per questi ultimi per ora abbiamo potuto creare solo una piccola squadra di due infermieri psichiatrici… una goccia nell’oceano». Nell’opera di riconciliazione Pime e Caritas possono contare sulla collaborazione dell’Associazione per il dialogo interreligioso, Acadir, nata nel 2001 per volontà della Conferenza episcopale camerunese. Di recente gli studenti iscritti all’associazione hanno diffuso un volantino, incollandolo dappertutto su muri e alberi, con su scritto “Boko Halal”, che vuol dire in lingua locale “i libri sono leciti” (Boko Haram significa “i libri sono proibiti”). 

Più di tutto forse servirà la testimonianza di un servizio rivolto a tutti indiscriminatamente, a seconda del bisogno. Negli ambulatori si presta soccorso anche ai terroristi quando, feriti, chiedono aiuto. «Le nostre strutture sono aperte a tutti, cristiani (la minoranza in Camerun rispetto alla popolazione musulmana), islamici e animisti», racconta ancora fratel Fabio, «solo nella distribuzione di generi alimentari privilegiamo i cristiani. Ma questo perché gli aiuti governativi e internazionali, essendo affidati ai capi tradizionali islamici, vengono distribuiti solo ai musulmani».  Quanto sia difficile operare in Camerun per il bene della popolazione lo rivelano due dettagli. Fratel Fabio si muove sempre con una scorta di otto militari. Inoltre, lui e i suoi collaboratori si occupano unicamente delle attività assistenziali lasciando ad altri la conduzione delle parrocchie che sono in tutto 25, ciascuna affidata a un sacerdote con la responsabilità di 40-60 villaggi, su un territorio complessivamente grande come la Lombardia. La divisione netta è necessaria per evitare l’accusa che i missionari cristiani compiano opera di proselitismo servendosi delle iniziative assistenziali, in altre parole che “comprino” conversioni in cambio di aiuti.