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GUARESCHI

Finalmente l'opera omnia, ma quanti dubbi

Omaggio reale o di facciata? Qualche sospetto viene...

Cultura 19_11_2011
Guareschi
Accade, finalmente: a oltre 50 anni dalla morte di Giovannino Guareschi, Rizzoli ha dato il via alla pubblicazione della sua opera omnia. Omaggio reale o di facciata? Qualche sospetto viene, visto che il primo volume della collezione – contenente le quattro raccolte del ciclo Don Camillo e Peppone – non contempla né un profilo biografico né una introduzione generale. E le appendici bibliografiche, che antologizzano le principali reazioni critiche alla sua opera, erano già state pubblicate nell’edizione 2008. Sono comunque interessantissime. Vi si trovano le staffilate di Franco Fortini, Giovanni Raboni o Giulio Ferroni, mossi da intenzioni tutt’altro che letterarie.

A contraddirli c’è però il Premio Bancarella tributato a Guareschi nel 1954. E le 798mila copie vendute in Francia l’anno dopo. Nel 1963 Alberto Bevilacqua scrive che «in Germania una diffusione veramente massiccia l’hanno avuta solamente tre opere: La pelle di Malaparte, Don Camillo di Guareschi e Il Gattopardo». Fenomeno legato a quegli anni? Nel 1997 il duo Fruttero & Lucentini constata: «il libro che raccomandiamo ancora agli stranieri che vogliano raccapezzarsi nell’Italia di oggi è ancora malgrado tutto Don Camillo di Guareschi». Nel 2007, nella sola Corea del Sud, lo stesso titolo raggiunge le 50mila copie. Mezzo secolo di successo mondiale che non accenna a fermarsi, con oltre 22 milioni di copie vendute in circa 380 edizioni. Chissà se la critica farà autocritica...

Giovannino Guareschi fu un uomo scomodo. Sempre, e a tutti. A leggerli davvero – i suoi racconti – si capisce perché. Non faceva certo piacere ai comunisti ricordare che i morti ammazzati li avevano fatti non solo le squadracce nere, ma pure le bande rosse (i cinque racconti del ciclo Paura, i commoventi Due mani benedette e Il pilone). E nemmeno ai funzionari del Partito Democristiano doveva garbare troppo un don Camillo rimbrottato dal Cristo che lo invita a star sempre lontano dalla politica, ed è stimato da Peppone poiché «prete, sì, ma non un prete clericale». Che Guareschi non stesse simpatico ai fascisti è noto, o i due anni di prigionia a Wietzendorf se li sarebbe risparmiati. E altrettanto sdegno riservava al consumismo, tanto che la scrittura del film-denuncia La Rabbia fu affidata a lui e a Pasolini.

Guareschi fu sempre libero. Impose la necessità di seguire la propria coscienza prima di ogni pretesa letteraria, come conclude nell’introduzione a Mondo Piccolo. Proprio per questo riesce a parlare ancora nelle nazioni più diverse, perché la coscienza è sempre quella. E parla attraverso la schiettezza del cronista, un potente istinto della verosimiglianza, e la capacità di riempire le pagine non di dubbi e tormenti interiori, ma di fatti, corpi, paesaggi, azioni. Di storie, pure e semplici. Che vediamo e tocchiamo, e ci incantano, come sempre incantarono l’umanità. Prendiamo un incipit a caso: «Morì il vecchio Bassini e sul suo testamento c’era scritto: “Lascio tutto all’arciprete perché faccia indorare l’angelo del campanile, così luccica e di lassù posso capire dov’è il mio paese”» (L’angelo del 1200). Con una riga siamo già catapultati nel cuore di una narrazione che è allo stesso tempo una fine e un inizio, distacco definitivo e geloso avvinghiamento alle proprie radici. Guareschi unisce cielo e terra con un tocco di pennello. E se non è letteratura questa – se non lo è ciò che rende più umano gli umani – di cosa stiamo parlando?