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FILOSOFI

Erode è tornato e scrive sul «Lancet»

Due recenti articoli pubblicati da prestigiose riviste scientifiche sostengono la liceità del lasciar morire i neonati, a discrezione dei genitori.

Attualità 02_05_2011
neonati
Al leggere l’articolo pubblicato sul Lancet di Febbraio 2011 dal noto filosofo Peter Singer, una domanda sorge: “A chi appartiene un figlio?”. Infatti Singer sostiene che si debba permettere la ricerca scientifica sui neonati, anche se questo li espone a moderati rischi, lasciando la decisione all’altruismo dei genitori (ma l’altruismo si esprime mettendo a disposizione il figlio o mettendo a disposizione se stessi?), come se il figlio fosse una loro propaggine. La domanda “A chi appartiene un figlio?” diventa stringente quando Wilkinson, filosofo di Oxford, sostiene (American Journal of Bioethics, Marzo 2011) che si possa lasciar morire un neonato non solo quando il conto “pesi-benefici” per la vita futura pende verso i primi (e nemmeno questo ci piace, come se tante vite cariche di sofferenza avessero vantaggio di essere spente d’ufficio), ma anche quando la vita del bambino malato, fatti i suddetti conti, “merita di essere vissuta”, perché il danno non è troppo grave; come se anche in questo caso il figlio fosse una proprietà di mamma e papà.

Vediamo di capire meglio.


I bambini non dovrebbero venir esposti a rischi neanche minimi per un esperimento scientifico - e questo ho espresso nella mia replica sul Lancet (Aprile 2011) -, dato che ogni protocollo di ricerca richiede il consenso informato di chi deve subire il rischio, e non si vede perché chi non si può esprimere non debba avere tutte le garanzie, soprattutto quella di supporre che, considerando la sua fragilità, ben si guarderebbe da mettere a rischio la propria integrità. La ricerca scientifica è sacrosanta: basta rispettare i pazienti. E vita o morte non “si decidono”, ma si constatano e basta: non si possono sospendere le cure perché il bambino è disabile e i genitori sarebbero sovraccaricati di un pesante fardello.


Purtroppo i bambini per certi filosofi non sono “persone”, dunque sono soggetti al volere dei genitori: prima della nascita e anche nel periodo successivo alla nascita, dato che in tanti protocolli per la rianimazione dei neonati i genitori sono gli arbitri quando si intravede la possibilità di un serio handicap. E non ci vengano a dire che i genitori sono i migliori tutori dei figli: tanti episodi di cronaca li smentiscono; e certo non sono preparati medicalmente. Dunque tutta la decisione la possono prendere solo sulla base dell’emotività: che croce viene buttata loro sulle spalle! Il bello è che questo diritto sulla vita dei figli oggi tanti genitori lo sentono anche negli anni successivi, tanto da imporre loro il carico di essere figli unici (che poi dovranno accudirli da soli nella vecchiaia e non è uno spasso), o il carico di compiere i loro desideri frustrati.


Siamo al diritto di vita e di morte romano sui figli, risuscitato, dopo duemila anni; siamo all’idea di figlio come proprietà, come diritto, e di una cultura che vuole i genitori non più custodi dei figli ma padroni (anche di pretendere poi dal figlio la perfezione, come l’avevano pretesa alla diagnosi genetica prenatale altrimenti non sarebbero stati lasciati nascere).


Pensare che i genitori o i medici possano decidere sulla vita e sulla morte di un bambino, quando ci sono alternative e speranze serie, o che si possa esporre un minore fragile (alcuni pesano meno di un chilo!) a dei rischi non nel suo specifico interesse, ma per un supposto altruismo dei genitori (fatto sulle spalle dei figli), prospetta uno scenario in cui il figlio è una proprietà piuttosto che un soggetto. E non è strano sentire questi discorsi in una società che parla di figli come di prodotti (del concepimento), o di “diritto” dei genitori, o di “scelta”.


“Di chi è un figlio?” ci chiedevamo? La risposta è nel Mistero che lo ha voluto e ce lo ha dato da custodire, cosa che vale intuitivamente anche per un non credente che abbia il coraggio di accettare il dato di fatto che i figli non sono “suoi”; perché i figli non sono prodotti che vengono bene o male, ma dei “tu”, che hanno una libertà e una dignità anche quando questa non è apparente o quando contraddicono – alla nascita o al liceo- le nostre aspettative: questa è la sfida.