Edith Stein, Wojtyła e la ricerca della Verità
Sono vari i punti di contatto tra santa Teresa Benedetta della Croce, di cui oggi ricorre l’80° anniversario del martirio, e san Giovanni Paolo II: l’amore per il Carmelo, la certezza che le speranze dell’uomo poggiano sulla forza redentrice della Croce, il senso antropologico della ricerca della Verità...
Voleva essere carmelitano. Voleva abbracciare l’Ordine del Carmelo, il giovane Karol Wojtyła. In Rive colme di silenzio, poesia del 1944, il futuro Giovanni Paolo II fa riferimento a una speciale “soglia”, quella del vicino monastero dei Carmelitani Scalzi di Wadowice: «Lontane rive di silenzio cominciano appena al di là della soglia. / Non le sorvolerei come un uccello. / Devi fermarti a guardare sempre più in profondità/ finché non riuscirai a distogliere l’anima dal fondo». Vicino a questo luogo si trova il Santuario di San Giuseppe: qui, Wojtyła andava spesso; è in questa chiesa che ha ricevuto la prima “formazione spirituale”. Ed è davanti all’altare della Madonna dello Scapolare che indossa il suo primo “abitino carmelitano”, lo scapolare appunto.
Tutte premesse che avrebbero fatto pensare a un ingresso di Wojtyła nell’Ordine carmelitano, ma poi sappiamo bene che la storia ebbe altro corso. Ma questo amore per il Carmelo non lo dimenticò mai, anzi lo alimentò con i suoi studi di teologia, approfondendo l’opera poetica-mistica-teologica (difficile separare i tre termini) di san Giovanni della Croce: tutto ciò è possibile riscontrarlo sia nelle opere poetiche della gioventù di Wojtyła, sia - più avanti - in quelle filosofiche e teologiche. Basterebbe ricordare che la sua tesi di dottorato ebbe il titolo Doctrina de fide apud sanctum Ioannem a Cruce: è san Giovanni della Croce, dunque, l’inizio di tutto il cammino spirituale per Giovanni Paolo II, la fonte a cui attingere per la propria spiritualità che ben si fonderà e si confonderà con la mistica e con la poesia. Ma di quale poesia si trattava? Di quale mistica? E quali sono i temi più importanti di questa “visione carmelitana”, se è lecito definirla così?
Nel rispondere a queste domande sembra quasi inevitabile entrare in una sorta di “gioco degli specchi” che vede coinvolti tre volti, tre monumenti della Chiesa: il primo, ovviamente, è Wojtyła; il secondo, lo abbiamo citato, è san Giovanni della Croce; il terzo volto è quello di una donna: Edith Stein, ossia santa Benedetta Teresa della Croce di cui oggi, 9 agosto, ricorre l’ottantesimo anniversario della morte. Tre nomi, tre biografie diverse fra loro che convergono, in maniera profonda, in un unico punto: la contemplazione di Gesù sulla Croce, e attraverso questa la contemplazione dell’uomo.
Edith Stein, nell’ultimo periodo della sua vita, scrisse La scienza della Croce, opera che non vedrà ultimata perché sarà deportata nel lager nazista di Auschwitz. Lo scritto era uno studio approfondito dell’opera di san Giovanni della Croce, autore di capolavori spirituali come: Salita del Monte Carmelo, Notte Oscura, Cantico spirituale e Fiamma d’amore viva. Furono i superiori che proposero a suor Teresa Benedetta di intraprendere tale studio, in concomitanza con la celebrazione del quarto centenario della nascita del santo spagnolo (1542-1942). La Scientia Crucis – così come fu definita da san Giovanni della Croce – è l’itinerario che conduce al pieno ripristino dell’immagine divina dell’uomo deturpata dal peccato, nel regno della grazia e poi della gloria mediante l’assimilazione al mistero di Cristo, Uomo-Dio obbediente al Padre fino alla morte di Croce. La teologia della Croce diventa, così, per la Stein il fulcro di tutta l’esperienza umana: un passaggio dalla morte alla rinascita spirituale, fino alla Risurrezione in Cristo e al passaggio alla vita di gloria.
Ma che cos’è la Croce per Edith Stein? Le parole della filosofa santa planano su vette di alta teologia e, al contempo, di profonda umanità: «La croce non è fine a sé stessa. Essa si staglia in alto e fa da richiamo verso l’alto. Quindi non è soltanto un’insegna – è anche l’arma potente di Cristo, la verga da pastore con cui il divino Davide esce incontro all’infedele Golia, il simbolo trionfale con cui Egli batte alla porta del cielo e la spalanca. Allora ne erompono i fiotti della luce divina, sommergendo tutti quelli che marciano al seguito del Crocifisso». E, ancora: «Il Signore Gesù, il Signore della gloria che ci salva nella sofferenza, nel dolore, nell’obbrobrio della Croce. Non una sofferenza sopportata e bestemmiata, maledetta e respinta, ma accettata, trasformata e diventata strumento di amore riparatore e redentivo».
E di forza redentrice della Croce parlerà il pontefice polacco nella sua Redemptor Hominis del 4 marzo 1979, prima enciclica del pontificato di san Giovanni Paolo II. Al capitolo secondo («Il mistero della Redenzione») di tale documento, troviamo queste illuminanti parole: «Egli, Figlio del Dio vivente, parla agli uomini anche come Uomo: è la sua vita stessa che parla, la sua umanità, la sua fedeltà alla verità, il suo amore che abbraccia tutti. Parla, inoltre, la sua morte in Croce, cioè l’imperscrutabile profondità della sua sofferenza e dell'abbandono. La Chiesa non cessa mai di riviverne la morte in Croce e la Risurrezione, che costituiscono il contenuto della sua vita quotidiana». E ancora, più avanti: «La Chiesa, che non cessa di contemplare l’insieme del mistero di Cristo, sa con tutta la certezza della fede che la Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all’uomo la dignità ed il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato. E perciò la Redenzione si è compiuta nel mistero pasquale, che attraverso la croce e la morte conduce alla risurrezione».
Ma c’è un altro “punto di contatto” fra le due immense figure: il senso antropologico della ricerca della Verità. Riassumere questa tematica – è necessario confessarlo – è impresa ardua perché una grande quercia ha rami e radici troppo fitte; il verbo “potare” – alias “riassumere” in questo caso – potrebbe essere poco appropriato; premessa necessaria. Tuttavia, in estrema sintesi, va evidenziato un’importante tematica: per Edith Stein la categoria “uomo immagine di Dio” si fonda su un’altra categoria, imprescindibile dalla prima, ossia l’intrinseca apertura dell’essere umano all’altro e a Dio. Questa apertura genera allora la ricerca che non è altro che sete di Verità e di pienezza che si realizza grazie all’incontro con Dio. Importante precisare: si tratta di un Dio tangibile, possibile da toccare e vedere nell’altro. La centralità dell’uomo, dunque, “immagine di Dio”, è focale per la Stein: un uomo che è possibile conoscere nell’incontro con l’altro; ed è attraverso proprio questo incontro che è possibile conoscere sé stessi e, di conseguenza, Dio. Così sarà per il filosofo Karol Wojtyła che nel suo saggio Persona e atto del 1969 scriverà: «Usciamo dal nostro io per andare verso l’uomo, e contemporaneamente partendo dall’uomo ritorniamo all’io. [...] L’oggetto della conoscenza non deve essere solo il nostro io, ma l’uomo che al tempo stesso è anche me stesso, è anche il mio io».