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EUROPA-RUSSIA

Ecco chi paga il prezzo più caro della guerra a Putin

La guerra delle mutue sanzioni fra Usa-Europa da una parte e Russia dall’altra sta avendo ripercussioni notevoli sull’economia di alcuni Stati europei. Soprattutto per i Paesi balcanici, con rischio di nuove instabilità.
Ucraina, tra sospetti e verità, di G. Motta

Esteri 26_08_2014
Vladimir Putin

La recente guerra delle mutue sanzioni fra Usa-Ue da una parte e Russia dall’altra sta avendo ripercussioni notevoli sull’economia di alcuni Stati europei. Le manifestazioni di dissenso avvenute in Spagna negli ultimi giorni evidenziano con chiarezza il fatto che tali decisioni non sono state digerite con favore da certi settori produttivi, che vedono nella Russia e negli stati suoi “amici” dei partner commerciali irrinunciabili, soprattutto in un momento così delicato per il nostro Continente. Come era prevedibile, però, queste misure hanno conseguenze particolarmente importanti soprattutto per i Paesi balcanici, alcuni dei quali da sempre legati a Mosca. Mentre Slovenia e Croazia, in quanto membri dell’Unione Europea, hanno giocoforza dovuto allinearsi a Bruxelles, il Montenegro e l’Albania hanno scelto autonomamente di emulare i loro vicini per dimostrare la propria credibilità come candidati all’ingresso nell’Unione. Ancora una volta, quindi, la posizione più delicata è quella di Bosnia, Serbia e Macedonia, tre Stati che al momento stanno cercando di resistere alle pressioni esterne e di non intraprendere la via delle sanzioni, irritando non poco Bruxelles con il loro comportamento. 

La Bosnia cerca di mantenere una certa indipendenza dalle decisioni europee, poiché, come ha riferito al quotidiano Oslobodjenje il ministro per il Commercio Estero e le Relazioni Economiche, Boris Tu?i?, il Paese non può permettersi il lusso di rinunciare ad un mercato importante come quello russo. Egli ha anche aggiunto che sino ad ora nessuno ha spiegato a Sarajevo le ragioni per cui l’Europa chiede agli aspiranti membri di seguire la linea tracciata dalla Commissione riguardo le relazioni con la Russia, rimarcando con circospezione che l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione non è ancora in vigore. Ancora più decisa è stata invece ?eljka Cvijanovi?, presidente del governo della Republika Srpska (l’entità della Bosnia ed Erzegovina a maggioranza serbo-ortodossa). L’esponente ha, infatti, puntato il dito contro la scarsa chiarezza che a suo dire affligge i rapporti fra l’Europa e i Paesi che aspirano ad entrarvi, sottolineando anche che per la Repubblica Serba non sarebbe sensato accettare l’invito a sanzionare la Russia, poiché questa è un partner affidabile ed influente, nonché un ottimo investitore. 

La posizione della Macedonia è invece più complessa e dipende prevalentemente da ragioni di tipo politico. Secondo un articolo di Blagoja Kuzmanovski per Radio Slobodna Evropa/Radio Free Europe, infatti, il Paese ha potenzialità limitate dal punto di vista della produzione agricola e non può vantare un interscambio importante con Mosca (il valore nei primi sei mesi dell’anno si aggirava sui 13-14 milioni di dollari). Per l’autore, quindi, ciò fa sì che Skopje possa approfittare solo in parte della situazione attuale e delle opportunità di mercato che si sono aperte con la messa al bando dei prodotti alimentari europei. Diversa è invece la posizione del portale economico croato Biznisplus che, citando il ministro macedone dell’Agricoltura, sottolinea come l’aumento dell’export potrebbe permettere al paese di ridurre il deficit commerciale verso la Mosca. Ciò nonostante, va sottolineato che al momento attuale i prodotti della Repubblica ex-jugoslava destinati alla Russia devono pagare una tassa doganale compresa fra il 2 e il 20%.   La decisione di non accodarsi alle sanzioni europee, pertanto, può dipendere principalmente dalla volontà di non precludere del tutto le possibilità di realizzazione del South Stream e, contemporaneamente, di salvaguardare le importazioni di gas russo. Queste transitano al 100% attraverso la Bulgaria (altro paese pesantemente coinvolto nella vicenda) e sono fondamentali per la sopravvivenza energetica del paese, nonché quasi impossibili da rimpiazzare. 

Come è spesso accaduto, il paese maggiormente sotto pressione fra i tre è la Serbia. Ciò deriva innanzitutto dalla storica special relationship che lega Belgrado e Mosca, un rapporto che si è ulteriormente rinsaldato dopo la caduta dei regimi comunisti e che spiega perché la maggior parte dei serbi sia contraria a schierarsi apertamente contro la “Madre Russia”. Nonostante in alcuni ambienti sia stato sottolineato che proprio la chiara ostilità manifestata dai cittadini abbia costretto il governo guidato da Aleksandar Vu?i? a cercare una difficile convivenza fra i due schieramenti, vi sono altri elementi che hanno certamente influenzato l’operato dell’esecutivo. Innanzitutto un ruolo chiave è stato giocato dal gas e dal già citato South Stream. Secondo il quotidiano Novosti, infatti, un eventuale aumento dei prezzi delle forniture russe potrebbe mettere in ginocchio l’economia del Paese, già pesantemente colpita dalla crisi e da una disoccupazione superiore al 20%. La costruzione del famoso gasdotto, invece, avrebbe, secondo vari studi, un impatto positivo per circa 2 miliardi di euro sull’economia serba, rendendo nel contempo il paese il principale hub energetico dell’Europa meridionale. È chiaro, quindi, che rinunciare ad una simile possibilità creerebbe un diffuso malcontento nel Paese, anche se al momento sembra che l’opera sia in gravi difficoltà a causa delle crescenti pressioni di Bruxelles sulla Bulgaria affinché Sofia blocchi almeno temporaneamente il progetto. 

Più in generale, comunque, la Russia rappresenta il terzo partner economico per la Serbia dopo Germania ed Italia, risultando quindi un mercato estremamente importante per l’export agricolo dello stato balcanico. Oltre a ciò, nel 2011 i due paesi hanno anche stipulato un “Accordo sul libero Commercio”, che garantisce una serie di vantaggi doganali a Belgrado. Nonostante le dichiarazioni di Vu?i?, secondo cui il suo Paese non approfitterà della situazione per permettere a compagnie straniere di bypassare i blocchi creati dalle sanzioni, proprio questo documento rappresenta un elemento di grande interesse per tutte quelle società estere che intendono aggirare lo stop imposto dal Cremlino. Secondo alcune analisi, questa situazione potrebbe far aumentare l’export serbo verso Mosca dagli attuali 200 milioni di euro a quasi 300, elemento che ha spinto addirittura alcuni giornali croati a suggerire ai propri produttori agroalimentari di sfruttare il poco amato vicino per non rinunciare agli introiti derivanti dalle esportazioni in Russia.  Ciò che risulta più evidente, comunque, è che la linea tracciata da Vu?i? è estremamente difficile da seguire e rischia di far finire il paese in un imbuto. Sebbene la strategia attuale richiami la tradizionale condotta estera Jugoslava, la Serbia di oggi non ha né il peso politico, né quello militare ed economico per poter pensare di riuscire a restare salda a lungo su queste posizioni. Il motivo principale è che Belgrado, pur scalpitando ogni tanto, non ha alcuna intenzione di rinunciare al percorso di integrazione Europea, per garantire il quale Bruxelles chiede una sempre maggiore adesione alle sue direttive.

Mentre il dissenso può essere tollerato se proviene da Bosnia e Macedonia, Paesi candidati ad entrare in Europa, ma senza date certe, lo stesso non può avvenire per la Serbia, che ha l’obiettivo di diventare uno stato membro entro il 2020. É chiaro però anche che la condotta di Belgrado è dettata da oggettive necessità: il Paese, oltre ad essere largamente russofilo, difficilmente potrebbe sopportare le conseguenze dell’adozione delle sanzioni. Al di là del disastro economico, infatti, ancor più grave sarebbe la perdita del sostegno politico di Mosca (certamente derivante da chiari interessi nell’area), elemento fondamentale nella questione mai risolta del Kosovo, nonché nel contenimento della politica neo-ottomana promossa dalla Turchia. Dal canto suo l’Europa, o meglio la Germania, sta facendo grandi pressioni sui paesi Balcanici affinché questi si adeguino alla linea della Ue, senza però essere in grado di fornire incentivi realmente motivanti, ma limitandosi a pronunciare velate minacce. Ciò risulta quantomeno singolare soprattutto perché le voci maggiormente contrarie allo scontro con la Russia vengono proprio da alcuni Paesi fondatori o da membri di vecchia data (oltre che da Ungheria e Bulgaria). 

In questo specifico momento, inoltre, il pericolo per il nostro Continente sembra piuttosto derivare dal fatto che questa faida distoglie l’attenzione dal problema più pressante, quello del contenimento della minaccia rappresentata dall’estremismo islamico. Nonostante i chiari segnali lanciati dagli esperti negli anni, infatti, soltanto negli ultimi giorni la politica sembra aver accettato di considerare l’espansione dell’integralismo come un problema prioritario per la sicurezza europea. Alla luce di ciò, sembra essere quindi più urgente dare la precedenza al fenomeno degli jihadisti nostrani che partono per andare a combattere in Siria ed Iraq, piuttosto che assicurarsi che Sarajevo, Belgrado e Skopje smettano di esportare frutta e verdura in Russia.