Dipendenze e suicidi: così si brucia una generazione
In Giappone li chiamano “hikikomori”: giovani che passano le notti davanti al computer spesso dormendo di giorno. In Italia, i ragazzi affetti da questa nuova dipendenza sono tra i 20 e i 30 mila e vanno dai 13 anni in su. Negli Usa, invece, si registra un'impennata allarmante di suicidi e i dati dicono che la popolazione più a rischio è quella delle adolescenti femmine.
Se a una donna si spezza il cuore solo a pensarci è difficile immaginare cosa possa accadere a una madre che vede il proprio figlio rinchiuso in una stanza e incapace di rapportarsi con qualcuno che non sia il proprio computer. E invece pare proprio che sia l'assenza di legami familiari solidi che sta facendo dilagare il fenomeno degli “hikikomori”, i giovani giapponesi che passano le notti davanti al computer spesso dormendo di giorno perché incapaci di reggere in una società super competitiva da cui si sentono rifiutati per quello che sono, a volte persino dai loro genitori assenti, divisi o impegnati in relazioni extraconiugali.
Nel nostro Paese i ragazzi affetti da questa nuova compulsione vengono definiti “ritirati”, sono tra i 20 e i 30 mila e vanno dai 13 anni in su. Dalla descrizione che ne fa un volume che raccoglie il contributo di diversi psicologi e psicoterapeuti, Il corpo in una stanza, emerge che spesso questi adolescenti sono stati studenti bravissimi che a un certo punto non hanno più sopportato il mondo in cui avevano successo. E così sono scappati. Compiendo una vera e propria fuga dall'esistenza che ha qualcosa di molto simile alla ricerca della morte. È, infatti, quantomeno significativo che proprio in questi giorni siano state pubblicate dal Center for Disease Control and Prevention, organismo della sanità pubblica americana che monitora la diffusione di malattie, cifre che mostrano un'impennata allarmante di suicidi: in soli 15 anni, dal 1999 al 2014, il numero delle persone che si sono tolte la vita è cresciuto del 24% (da 29 mila morti si è passati 42 mila), con un tasso di 13 decessi ogni 100 mila persone.
Aron Kheriatu, professoressa di psichiatria alla University of California e autrice di volumi sulla depressione giovanile, ha spiegato che la crescita dei suicidi dimostra che questi non sono legati solo a una componente di sensibilità personale o biologica, ma che esiste una influenza «ambientale, sociale e culturale». E quanto «porta le persone ad avere meno legami sociali, o ad essere alienate e isolate, incrementa il rischio di suicidi». Non a caso, la popolazione che divorzia o non si sposa «ha un rischio maggiore di uccidersi rispetto alle persone sposate». I dati, però, dicono anche che la popolazione più a rischio è quella delle adolescenti femmine, fra cui il tasso di suicidi è triplicato. Secondo Kheriatu questi numeri sono dovuti al fatto che la cultura fa sentire gli adolescenti come «degli oggetti: sono dei consumatori».
Ma basta davvero questo a ricercare la morte e a rendere insopportabile il mondo? Nel 1200 l’imperatore Federico II tentò di scoprire se esistesse una lingua primitiva ordinando che un gruppo di neonati fosse nutrito e lavato dalla servitù senza che nessuno potesse parlare loro. L’esperimento si concluse con la morte di tutti i bambini, dimostrando non solo che per imparare l'uomo ha bisogno di sentirsi voluto in una relazione, ma che rispecchiarsi nel volto di qualcuno che lo ama è vitale. Tanto che vedendosi riflessi negli occhi di chi li considerava solo come oggetti utili a un certo fine sono defunti.
Può sembrare eccessivo, invece non è inverosimile pensare che il disamore porti al desiderio di scomparire per non dover subire il continuo rifiuto del mondo. Tanto che la psichiatra spiega dalla «cultura che valuta e spinge i giovani al successo imprenditoriale, un successo materiale», e che tratta «gli adolescenti come strumenti invece che come un fine in se stessi», discendono anche la diffusione dell'anoressia, l'alienazione virtuale, la depressione e altre compulsioni anestetiche. Parrebbe una fissa, ma ancora una volta bisogna tornare lì perché, scava e riscava, finisce che il punto è sempre quello: il male che causa tutti i mali è che l'uomo è diventato un oggetto strumentale al potere del più forte.
L'aborto, l'eutanasia, la pedofilia, la sessualizzazione precoce sono tutti conseguenze della stessa malattia, così come lo è il suicidio giovanile. Uno sguardo sulla persona amputato dell'eterno e quindi materialista. Perché se la vita finisce qui conterà solo l'apparenza e il suo possesso e l'uomo non potrà che essere lo strumento “usa e getta” del potere. Papa Benedetto XVI definì questo materialismo come la «cultura della morte», spiegando che occorre ritornare a una visione trascendentale dell'uomo in cui si riflette il volto del Dio, ma non solo. Servono anche un rapporto e una via.
Rapporto, spiegò il pontefice nel messaggio alla Gmg del 2012, con un Padre che ci ha voluti ancora prima che facessimo qualcosa e che si declina nella carne della Chiesa e nella compagnia di coloro che vivono e insegnano i suoi comandamenti. Perché solo «osservandoli, noi troviamo la strada della vita e della felicità». Come dice Gesù: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena».