Diffamazione, se il giudice ha (quasi) sempre ragione
Il giudice ha quasi sempre ragione. Per le cause intentate da comuni cittadini, in sede civile la media di domande di risarcimento rigettate è del 38 per cento, ma se a far causa è un magistrato la percentuale si dimezza (19%). La domanda di risarcimento viene accolta nel 47%, ma se l'attore è un giudice si sale al 69.
Nei giorni scorsi il leader della Lega, col suo linguaggio un po’ crudo, ha apostrofato in maniera un tantino inelegante i magistrati. Dal palco del congresso piemontese del Carroccio, difendendo un assessore leghista coinvolto nella “rimborsopoli” ligure, Matteo Salvini ha tuonato contro «quella schifezza che è la magistratura italiana». I toni ricordano quelli berlusconiani ed è evidente che denunciare l’imparzialità della magistratura solo quando si viene toccati da un’inchiesta può togliere credibilità alle accuse mosse.
Tuttavia, al netto di inevitabili strumentalizzazioni politiche e partitiche, in Italia il nodo della magistratura politicizzata, che spesso entra a gamba tesa nella vita delle istituzioni rappresentative alterandola, condizionandola e orientandola verso direzioni che a volte appaiono predeterminate, rimane in cima alle emergenze da affrontare. Senza contare che il meccanismo delle porte girevoli, con toghe che entrano in politica e, una volta terminata quell’esperienza, tornano a ergersi a terzi tra le parti, equivale a una prassi davvero discutibile, tipicamente italiana. Alcuni dati, però, concorrono a rafforzare il quadro di una vera e propria casta, quella delle toghe, sempre lesta a sottrarsi ai meccanismi della responsabilità e molto più incline alle rivendicazioni corporative e alla difesa di privilegi incompatibili con un’idea di democrazia basata sulla effettiva tripartizione dei poteri e su quell’opportuno e imprescindibile meccanismo di pesi e contrappesi che dovrebbe governare la dialettica tra i poteri stessi.
Sono le cifre di uno studio statistico sulle cause per diffamazione curato da Morris Ghezzi, docente di sociologia del diritto dell’Università Statale di Milano, che dimostrano incontrovertibilmente un disarmante andazzo. Le lungaggini della giustizia italiana devastano la vita di milioni di cittadini, ma, se tra le parti in causa c’è un magistrato, come per incanto il processo accelera e si conclude in tempi rapidi, quasi sempre con la condanna della controparte e un lauto risarcimento per la toga che ha sporto querela.
Nei giornali e nelle televisioni questa percezione era già molto forte: quando c’è di mezzo un magistrato, è difficile vincere una causa contro di lui perché il suo collega, chiamato a giudicare sul caso di specie, gli darà quasi sempre ragione. Tutto questo, peraltro, sembrerebbe contrastare con una giurisprudenza che negli ultimi anni ha ammesso la possibilità, per i comuni cittadini e per i giornalisti, di criticare l’operato dei giudici, pur senza scadere nella contumelia e nel dileggio personale, ma argomentando le ragioni del dissenso.
Lo studio analizza gli esiti di sette anni (dal 2000 al 2006) di cause per diffamazione di una stessa azienda editoriale, classificandole per “attori”, cioè in base alle categorie di chi sporge querela promuovendo la causa: magistrati, politici, altri. Chiunque si senta diffamato da una pubblicazione audio, video o a mezzo stampa, può scegliere se rivolgersi al giudice civile chiedendo un risarcimento per il danno alla reputazione o se invocare il reato di diffamazione, sporgendo denuncia penale. In questo secondo caso, il direttore del giornale risponde in solido con l’autore dell’articolo. Per quanto riguarda le cause intentate da comuni cittadini, in sede civile la media di domande di risarcimento rigettate è del 38 per cento, ma se a far causa è un magistrato quella percentuale si dimezza (19 per cento dei casi). La domanda di risarcimento viene accolta nel 47 per cento dei casi in media, ma se l'attore è un giudice si sale al 69.
Dato ancor più significativo e allarmante riguarda la libertà di stampa. In media, quattro volte su dieci il giornalista e l’editore vengono assolti dalle accuse di diffamazione perché il giudice riconosce l’applicazione delle esimenti del diritto di cronaca e di critica, cioè delle cause di giustificazione che esonerano il giornalista da responsabilità civili e penali. Se, però, la testata giornalistica è accusata di aver diffamato una toga, nell’83% dei casi il processo si conclude con una condanna. In generale, la condanna per diffamazione arriva una volta su quattro, ma se il denunciante è un giudice si sale a una volta su due.
Discriminazioni pro-giudici si registrano anche in materia di entità del risarcimento. In sede civile il cittadino qualunque ottiene in media 31.501 euro, il magistrato 36.823. Nel penale il divario è ancora più clamoroso: il giudice assegna 9.829 euro di media al semplice cittadino e 28.741 al magistrato. Per non parlare della durata media delle cause civili, che è di 44 mesi per i cittadini senza privilegi e di 36 per i magistrati. Si parla di casta dei politici, ma forse quella delle toghe è ancora più pericolosa per gli equilibri democratici.