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GOVERNO IN CRISI?

Delegare al popolo per non decidere, la sindrome gialloverde

Il mito della democrazia diretta è un chiodo fisso dell’ideologia grillina, ma con l’abuso del referendum, Lega e 5 Stelle vogliono scaricare sul popolo le responsabilità di scelte delicate che le porterebbero a tradire il mandato elettorale. Una politica che rinuncia a decidere, in nome di un assemblearismo virtuale, non fa gli interessi del Paese, bensì quelli di una cerchia ristretta, di una oligarchia.

Politica 16_01_2019

Referendum sulla Tav, così «decidono i cittadini», referendum consultivo con un quorum basso (25%) «così i cittadini possono sentirsi protagonisti e proporre nuove leggi». Il ritornello delle ultime settimane di governo gialloverde è più o meno questo: bisogna coinvolgere di più gli elettori nei processi decisionali e non calare dall’alto scelte che riguardano l’intera collettività.

Messa in questo modo sembrerebbe una nobile dimostrazione di fine spirito democratico, un netto superamento del verticismo che ha caratterizzato la politica degli ultimi decenni. In realtà si tratta di un’abdicazione degli attuali governanti alle proprie responsabilità, una rinuncia alle difficoltà insite nella funzione di governo, continuando però a intestarsi i meriti di eventuali successi propiziati da circostanze esterne e non già ascrivibili a meriti propri. Chi è stato eletto per governare, deve governare, sporcarsi le mani, prendere decisioni anche impopolari, senza essere schiavo ogni giorno dei sondaggi, senza compiacere il popolo per un mero tornaconto elettorale, peraltro inesorabilmente di breve periodo.

Le distanze tra il programma della Lega e quello dei Cinque Stelle, in Economia, sulle grandi opere, sui migranti, ma anche su tante altre questioni non ancora affrontate dal governo Conte, sono siderali. Il contratto di governo avrebbe dovuto contribuire a colmarle, e invece le liti quotidiane tra i due alleati lasciano intendere che non c’è stata nessuna sintesi tra posizioni in larga parte inconciliabili, bensì un patto di puro potere che reggerà fino a quando i consensi di entrambi continueranno a crescere. Quando sarà soltanto uno a guadagnare elettoralmente, si scioglierà il vincolo e ognuno per la sua strada.

Ecco perché, con l’uso (e l’abuso) di uno strumento di democrazia diretta come il referendum, le forze di governo vogliono scaricare sul popolo le responsabilità di scelte delicate che le porterebbero fatalmente a litigare tra di loro e a tradire il mandato elettorale.

La Costituzione prevede che il referendum abrogativo di una legge ottenga un quorum pari almeno al 50% più uno degli aventi diritto. I Cinque Stelle ora spingono per l’introduzione di un nuovo tipo di referendum, quello propositivo, che offrirebbe ai cittadini la possibilità di proporre nuove leggi. L’idea era circolata già ai tempi di Bettino Craxi, ma poi fu accantonata. Ora viene rispolverata dai grillini, che in questo modo, prevedendo un quorum di appena il 25% degli aventi diritto (questa la percentuale caldeggiata dal Ministro per i rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta, Riccardo Fraccaro), vorrebbero dare a una esigua minoranza il potere di orientare addirittura il processo legislativo, sostituendosi ai rappresentanti del popolo.

Il mito della democrazia diretta, potenziato dall’avvento pervasivo della Rete, è un chiodo fisso dell’ideologia grillina. Non a caso, qualche mese fa il presidente della Casaleggio Associati, Davide Casaleggio, in un’intervista, profetizzava addirittura la scomparsa in breve tempo del Parlamento, e sentenziava: «Oggi grazie alla Rete e alle tecnologie, esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile». 

Secondo il figlio del fondatore dei Cinque Stelle, occorre scardinare i meccanismi della democrazia rappresentativa: «Uno vale uno è il fondamento della democrazia partecipativa. I grandi cambiamenti sociali possono avvenire solo coinvolgendo tutti attraverso la partecipazione in prima persona e non per delega».

E’ il trionfo dei like che, nella finta democrazia del web, sostituiscono la competenza e la rappresentatività; è la santificazione dei click, che diventano il criterio di valutazione e selezione della classe dirigente. Sono numerosissimi i casi di parlamentari o amministratori locali pentastellati che hanno ricevuto una investitura davvero insignificante, con pochissimi voti on line. Eppure ora gestiscono la cosa pubblica o occupano gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama perché il Movimento ha deciso di candidarli e sono stati eletti sfruttando il vento favorevole della protesta popolare. Il Movimento ha fatto scegliere on line ai suoi simpatizzanti perfino i membri del consiglio d’amministrazione Rai in quota Cinque Stelle, per evitare di selezionare personalità oggettivamente competenti sulla base dei curricula e delle esperienze maturate, ma non di stretta osservanza pentastellata. Come se un comune seguace grillino (ma anche di qualsiasi altra forza politica) avesse gli strumenti tecnici per valutare candidature del genere.

Una politica che rinuncia a decidere, in nome di un assemblearismo virtuale, non fa gli interessi del Paese, bensì quelli di una cerchia ristretta, di una oligarchia destinata ad essere travolta presto dalla valanga di una nuova emergenza finanziaria e di una progressiva e devastante delegittimazione.