Dalla Chiesa povera alla Chiesa misera
Salamanca. La diocesi non può aiutare 10 conventi di suore che devono così ricorrere al Banco Alimentare. Eppure la Chiesa spagnola riceve lauti finanziamenti dai contribuenti tramite lo Stato che utilizza anche per attività superflue. Forse sarebbe il caso che le diocesi iniziassero a ripensare il loro sistema di finanziamento e tornassero alla Provvidenza. I fedeli aprirebbero più volentieri il portafogli. I vescovi volevano una chiesa povera, si ritrovano una Chiesa misera.
Secondo il portale Infovaticana, che cita un articolo del giornale locale La Gaceta, quasi la metà dei conventi della provincia di Salamanca necessita degli aiuti del banco alimentare spagnolo. Precisamente si tratta di 10 monasteri su 23. Siamo in Spagna, a nord di Madrid in un territorio di circa 3 milioni di abitanti. Le monache sono povere. Colpa, dicono, della crisi di vocazioni e del calo di fedeli e quindi delle offerte.
Le povere suore devono tutte le mattine sperare che i pacchi che il Banco alimentare destina alla Caritas e a tutte le emergenze del Paese vengano recapitati anche a loro. Loro che, come tutte le suore della storia, sono nate per rifocillare indigenti, curare malati, accudire orfanelli, insomma, prendersi cura degli ultimi. Solo che adesso le ultime sono diventate loro. E la cosa non sembra intenerire nessuno.
La cosa dovrebbe allarmare almeno la diocesi di Salamanca, ma il vescovo – riferisce sempre Infovaticana – ha detto che non possono fare nulla per aiutarle perché sono congregazioni indipendenti. Indipendenti da che cosa non si sa, se è vero che con ingenti finanziamenti pubblici la Chiesa aiuta tutti gli ultimi della terra. Si vede che le povere monachelle non sono abbastanza ultime. O che la loro attività, quella orante prima di tutto, non sembra essere ritenuta meritevole di sostegno.
Così da un po’ di tempo a questa parte le religiose devono prodursi nell’atto umiliante di fare la carità, almeno per mangiare, poi, per mantenere il tetto, si vedrà. La notizia ha indignato non poco in Spagna, anche perché, facendo due conti, si impara che la Conferenza Episcopale Spagnola riceve circa 250 milioni di euro dallo Stato, tramite un sistema di detrazioni IRPF, simile concettualmente, al nostro otto per mille. E che cosa ne fa? Paga stipendi a vescovi e sacerdoti e finanzia attività pubblicistiche ed editoriali. Ad esempio, solo 4,8 milioni all’anno vanno in materiale promozionale per pubblicizzare la tanto sospirata X nella dichiarazione dei redditi. Cioè: la Chiesa spagnola spende quasi 5 milioni l’anno per pubblicizzare un sistema di finanziamento che non riesce, o non si vuole che riesca?, a sostenere chi vive nella povertà, come appunto alcune sorelle monache.
Verrebbe da gridare all’anticasta e farci una campagna sopra, ma il sistema è così oliato che difficilmente anche questa notizia smuoverà le coscienze. Anche perché buona parte di quei soldi dei contribuenti serve a finanziare le attività di 13TV, la tv della Conferenza Episcopale Spagnola. La quale, proprio nei giorni scorsi dopo aver mandato in onda il servizio sull’incidente batterico occorso a Elton John si è augurata per bocca della speaker una veloce guarigione per il cantante. Per carità, la guarigione si augura a tutti, ma la stessa sollecitudine verso il miliardario cantante inglese che compra bambini, non si vede verso i vicini che forse, salute a parte, soffrono ugualmente.
Disfunzioni di un sistema di mantenimento del clero che forse andrebbe rivisto. Ricette non ce ne sono, o forse, ce ne sono ma dovrebbero andare a ripescare una parola ormai desueta nel vocabolario di tanti cattolici: Provvidenza. Che non è un fatalistico sperare, ma sapere con certezza, dunque fede, che i bambini sono certi che alla sera la mamma preparerà loro la cena. Non si preoccupano di queste cose, come invece fanno i pagani.
Certo, non bisogna impancarsi a giudici, però sembra che il tema dell’8 per mille e in generale del finanziamento del clero sia un argomento che molto irrita i laici, che si sentono sempre più bestie da mungere. Per avere in cambio cosa? Spesso, molto spesso, una gerarchia ecclesiastica tiepida, quando non addirittura favorevole verso unioni gay, eutanasia e altre mostruosità del genere. Ognuno mangia come prega, verrebbe da dire. Però il tema è cogente. Abbandonare l’8 per mille? Suggestivo e rivoltoso, però è anche vero che di preti e vescovi che vivono, e spendono, con dignità e per le anime ce ne sono. Ci sono preti e vescovi che si tolgono il pane di bocca per aiutare le famiglie. Perché buttare via il bambino e l’acqua sporca insieme? Sarebbe ingiusto e soprattutto contraddirebbe quello che è uno dei compiti dei laici: contribuire al mantenimento delle strutture ecclesiastiche.
“I laici dunque abbiano in grande stima e sostengano, nella misura delle proprie forze, le opere caritative e le iniziative di «assistenza sociale», private pubbliche, anche internazionali, con cui si porta aiuto efficace agli individui e ai popoli che si trovano nel bisogno, e in ciò collaborino con tutti gli uomini di buona volontà” dice la conciliare Apostolicam Actuositatem. Fra queste vi è anche la Chiesa? Indubbiamente sì, dunque non conviene sottrarsi al compito. Né è giusto.
Però invitare a una diversa concezione della Provvidenza sì. Per molti laici il sistema dell’8 per mille serve a ingrassare strutture obsolete che non restituiscono il servizio per il quale dovrebbero essere sostenute, cioè l’edificazione delle anime. Populismo? Forse, ma il calo delle offerte è impietoso. Lo dimostra il fatto che quelle congregazioni e quelle realtà ecclesiali che più sono attente all’anima delle persone, più ricevono in cambio. Chi ha dimestichezza di movimenti o congregazioni sa che quando il fedele trova qualche cosa di decisivo per la sua anima e il suo destino apre molto più volentieri il portafogli.
Fino a 40 anni fa le parrocchie avevano fondi e proprietà donati dalla generosità dei fedeli con sacrifici e sudore. I preti non li tenevano per sfizio, ma li mettevano a reddito per far girare l’economia. Erano considerati padroni sì, ma davano da mangiare a famiglie intere con il lavoro nei campi o in altre attività. Erano preti che sapevano di essere amministratori di anime e beni altrui. Non per esserne proprietari, ma per costruire il benessere sociale e con esso migliorare la vita delle pecorelle loro affidate.
Oggi, venduti i fondi e amministrati spesso distrattamente i beni, le diocesi si ritrovano in bolletta, ecco perché la manina dello Stato è indispensabile. Però ora, anche le Diocesi dovrebbero interrogarsi seriamente su come finanziarsi e per certi versi tornare al Vangelo, anche con la scomodità di dover chiedere aiuti senza sperare nella manina dello Stato, che poi in cambio chiede di non essere disturbato mentre manovra.
Un ritorno alla povertà evangelica vera però, non al buonismo della Chiesa povera, che ha abbandonato i suoi fasti sacri e divini, per un pauperismo d’accatto che trascura di omaggiare Dio e di curare le anime. Volevano una chiesa umile e povera, si ritrovano una Chiesa misera e umiliata.