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EDITORIALE

«Crocefiggeteli!» Se questo è l'islam moderato

Fanno discutere i metodi brutali suggeriti dall'imam Ahmad al Tayeb, imam della moschea di Al Azhar del Cairo, cuore dell'islam sunnita, contro i terroristi dell'Isis. Ma dietro le dure prese di posizione c'è anche la realtà di governi arabi che si sfilano dalla guerra al Califfo, per il timore delle proprie opinioni pubbliche, simpatetiche con lo Stato Islamico.

Editoriali 07_02_2015
Ahmed al Tayeb

La tragica sorte del giovane pilota giordano, il sottotenente Maaz al-Kasasbeh, abbattuto in volo, torturato e poi bruciato vivo con tanto di video dagli omini dello Stato Islamico, ha scatenato dure reazioni in Giordania e nel mondo islamico che definiamo “moderato”.

Del resto i leader politici occidentali sono impegnati da mesi a spiegarci che contro di noi non si è mobilitato l’islam ma una sua aberrazione, appunto il Califfato, che in realtà con il vero islam, quello “di pace”, non avrebbe nulla a che fare. E’ interessante quindi osservare, tra le reazioni all’atroce esecuzione del pilota giordano, quella di un’altissima figura religiosa quale Ahmed al-Tayeb, grande imam della moschea egiziana di al-Azhar a Il Cairo, massima istituzione sunnita. L'imam ha lanciato il suo proclama attraverso un comunicato in cui, riferendosi al pilota giordano arso vivo, ha "espresso la sua profonda indignazione per questa azione terrorista ignobile che esige la sanzione indicata dal Corano per questi tiranni che corrompono e che fanno la guerra ad Allah e al suo messaggero. Devono essere uccisi, crocifissi e bisogna tagliare loro le mani e i piedi", ha aggiunto riferendosi alla punizione coranica del taglio incrociato della mano destra e del piede sinistro.

Niente male come moderazione. Ma se ai precetti coranici applicati alla lettera dallo Stato Islamico l’islam “moderato” risponde con la stessa moneta dove sta la differenza? Al-Tayeb ha  definito lo Stato Islamico "organizzazione terrorista satanica"  affermando che l'uccisione del pilota giordano "è un'azione maligna". Un linguaggio non dissimile da quello utilizzato dal Califfato per indicare i suoi nemici e del resto non è una novità che buona parte dell’opinione pubblica sunnita consideri positivamente il Califfato, come dimostrano le dure critiche interne subite dalle monarchie del Golfo per l’adesione alla Coalizione e il basso profilo assunto da questi Paesi nelle operazioni aeree sulla Siria.

A questo proposito giova ricordare che nel settembre scorso un sondaggio realizzato in Arabia Saudita dimostrò che il 97% degli intervistati riteneva che l’IS applicasse correttamente la sharia. In fondo anche nel regno dei Saud (notoriamente abitato da islamici “moderati” quali i wahabiti) si decapita e si amputano arti per punire diversi reati. Tra quelli che conducono alla decapitazione vi sono il traffico di droga, l’omicidio e la “stregoneria”. Fate voi il confronto con il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, che secondo l'Osservatorio siriano per i diritti dell'uomo (Ondus), Ong vicina ai ribelli anti-Assad, ha giustiziato dall’anno scorso 1.432 persone fatte prigioniere tra Iraq e Siria, di cui 50 dall’inizio dell’anno: tutti colpevoli di apostasia e spionaggio o rei di essere prigionieri di guerra e quindi “nemici dell’islam”. Uccidere ostaggi e prigionieri non è una prerogativa solo dell'IS e l'Ondus ha rilevato che i qaedisti del Fronte al-Nusrah hanno giustiziato almeno 6 persone dall'inizio del 2015 mentre altre 20 esecuzioni sono state effettuate da altri gruppi armati dell'opposizione e da milizie fedeli al regime del presidente Bashar al Assad.

Anche la reazione giordana alla brutale esecuzione del giovane al-Kassasbeh sembra improntata alla legge del taglione. Dopo la diffusione del video della morte del pilota sono stati immediatamente giustiziati due jihadisti: l'aspirante kamikaze irachena Sajida al-Rishawi coinvolta in un attacco terroristico che uccise 60 persone ad Amman e Ziyad Karboli, un militante iracheno di al-Qaeda, condannato nel 2008 per l'omicidio di un giordano.

Amman ha dato il via a una più incisiva offensiva militare contro l'IS. I jet F-16 giordani hanno martellato le postazioni dei jihadisti a Raqqa e Deir Ezzor causando la morte di almeno 55 miliziani tra cui un comandante dello Stato islamico noto come "il Principe di Ninive". Al rientro dalla missione i cacciabombardieri hanno sorvolato Karak per salutare il re e la famiglia del "martire" Maaz al-Kasasbeh che si erano trovati insieme nella città di cui il pilota era originario in una cerimonia di cordoglio.

Fonti militari giordane non escludono un intervento terrestre dell’esercito che comporterebbe situazioni rischiose e paradossali. Finora la Giordania ha appoggiato i ribelli anti-Assad d’intesa con le monarchie del Golfo e le potenze occidentali. Entrare con truppe in Siria per combattere il Califfato significa aiutare indirettamente il regime di Assad il quale potrebbe però non vedere di buon occhio la violazione della sovranità nazionale siriana da parte di un esercito che non può essere considerato amico.

Un’altra ipotesi è che Amman intenda impiegare le sue forze speciali ma al fianco di quelle occidentali sul territorio iracheno. In ogni caso affrontare gli esperti combattenti dell’IS sul campo di battaglia potrebbe determinare altre perdite all’esercito giordano il cui ultimo intervento bellico risale alla guerra contro Israele dello Yom Kippur nel 1973. Senza contare che un conflitto aperto contro l’IS potrebbe creare nuove profonde spaccature sociali in un’opinione pubblica in cui non sono certo poche le simpatie per la causa del Califfato.

Se Amman sembra sfoderare gli artigli, altri Paesi arabi mostrano di temere il Califfato e il rischio di trovarsi coinvolti in una guerra fratricida tra sunniti. Nei giorni scorsi è emerso da fonti statunitensi che gli Emirati Arabi Uniti hanno cessato le attività dei loro jet sulla Siria dopo la cattura del pilota giordano, nel dicembre scorso.

A motivare il passo indietro del Paese arabo il timore per la sorte dei propri piloti. Per rimettere i propri caccia a disposizione della Coalizione – scrive il New York Times - gli Emirati avrebbero chiesto al Pentagono di aumentare gli sforzi di 'search and rescue' (ricerca e soccorso) operando più vicino alle aree del nord dell'Iraq dove è già attiva una simile copertura.

Anche il Qatar sembra abbia ridotto al lumicino le sue missioni aeree mentre nel complesso quelle effettuate dai Paesi arabi rappresenterebbero appena il 10% del totale delle attività aeree effettuate dalla Coalizione sulla Siria. Di fatto quindi la guerra al Califfato vede una presenza e un ruolo sempre più marginali dei Paesi sunniti.