Cristiani iracheni, avvertimento all'Europa
Nei ripetuti interventi dei vescovi iracheni e anche della Santa Sede, c'è l'appello per un intervento umanitario e militare immediato. Ma dall'Iraq arriva anche un avvertimento: la forte immigrazione di musulmani, senza gli adeguati strumenti culturali, rappresenta un rischio mortale.
Non basta piangere sulle decine di migliaia di cristiani costretti a fuggire dalle proprie case in Iraq; e bisogna pregare capendo bene la situazione, quali interventi siano necessari e quali siano le implicazioni (anche per noi europei) della tragedia in corso. È ciò che emerge dai ripetuti interventi in questi giorni dei vescovi iracheni e dei rappresentanti della Santa Sede. Proviamo a sintetizzare per punti.
1. LA SITUAZIONE DEI CRISTIANI.
«La morte e la malattia si accaniscono sui bambini e sugli anziani tra le migliaia di famiglie di rifugiati sparpagliate nella regione curda, le quali hanno perso tutto a causa dei recenti, tragici sviluppi; le milizie dell'Isis continuano la loro avanzata e gli aiuti umanitari sono insufficienti». Lo ha scritto il patriarca caldeo di Baghdad, monsignor Rafael Sako (clicca qui), il quale ha anche offerto un dettagliato resoconto della situazione:
«Vi sono almeno 70mila sfollati cristiani ad Ankawa, assieme a membri di altre minoranze religiose di questa città che ha una popolazione cristiana locale di oltre 25mila cristiani. Le famiglie che hanno trovato accoglienza nelle chiese o nelle scuole sono in condizioni soddisfacenti, mente quanti dormono tuttora per le strade o nei parchi pubblici sono in una situazione deplorevole...
A Dohuk, il numero dei rifugiati cristiani ha superato i 60mila e la loro situazione è persino peggiore a quella di Erbil. Vi sono inoltre famiglie che hanno trovato riparto a Kirkuk e Sulaymaniyah, così come alcuni sono riusciti ad arrivare anche fino alla capitale, Baghdad.
Nel frattempo, cresce in maniera esponenziale il fabbisogno di beni di prima necessità: alloggio, cibo, acqua, medicine e fondi; la mancanza di un coordinamento internazionale sta rallentando e limitando la realizzazione di una effettiva assistenza a quelle migliaia di persone che attendono un sostegno immediato. Le chiese, per quanto è nelle loro possibilità, stanno mettendo a disposizione tutto ciò che hanno.
Ricapitolando la situazione dei villaggi cristiani attorno a Mosul e fino ai confini della regione curda: le chiese sono state svuotate e profanate; cinque vescovi sono al di fuori delle rispettive diocesi, i sacerdoti e le suore hanno abbandonato istituti e missioni, lasciandosi ogni cosa alle spalle, le famiglie sono fuggite con i loro bambini, e lasciandosi tutto il resto dietro di sé! Il livello del disastro è estremo».
2. COSA SI PUO' E SI DEVE FARE
Bisogna intervenire subito. Lo ha detto con molta chiarezza in una intervista a Radio Vaticana monsignor Silvano Tomasi, nunzio apostolico presso le Nazioni Unite a Ginevra (clicca qui). «Bisogna intervenire adesso, prima che sia troppo tardi», ha detto Tomasi che per il suo incarico esprime evidentemente la posizione ufficiale della Santa Sede (il nunzio è un diplomatico molto esperto, impensabile che parli senza un accordo con la Segreteria di Stato).
Il nunzio chiede tre tipi di intervento. Anzitutto un aiuto umanitario: c’è «l’urgenza di difendere anche fisicamente i cristiani nel Nord dell’Iraq, provvedere all’aiuto umanitario – acqua, cibo – perché i bambini stanno morendo, i vecchi stanno morendo, per mancanza di aiuti alimentari». Ma questo va di pari passo con un’azione militare che, ormai, «in questo momento è necessaria». L’obiettivo è fermare l’avanzata di «questi fondamentalisti jihadisti, che in nome di un Califfato che vogliono mettere in piedi, stanno distruggendo e uccidendo senza misericordia», ma – come ricordava il patriarca caldeo – l’obiettivo deve essere quello di far tornare i cristiani nelle loro case, nella piana di Ninive e a Mosul e per questo è importante anche che si rafforzi il governo di Baghdad.
Purtroppo non sembrano queste la strategia e l’obiettivo di Stati Uniti ed Europa. Ancora monsignor Sako: «La posizione del presidente statunitense Barack Obama di fornire solo assistenza militare per proteggere Erbil è deludente. E le continue voci di divisioni dell'Iraq rappresentano una ulteriore fonte di minaccia. Gli americani non sembrano voler garantire una soluzione rapida, che sia fonte di speranza, perché non intendono attaccare l'Isis a Mosul e nella piana di Ninive».
C’è dunque chiara la percezione che i raid aerei americani non abbiano come scopo primario la difesa della presenza cristiana in Iraq. E non è una novità, mons. Tomasi: c’è «una certa indifferenza da parte del mondo occidentale. Quando si tratta di cristiani, infatti, c’è un falso pudore a parlarne e a difenderne i diritti. Quindi è un momento dove la voce della coscienza deve emergere con chiarezza».
Ma ancora monsignor Tomasi indica un terzo intervento necessario: è «urgente fare in modo che, coloro che forniscono armi e denaro ai fondamentalisti, i Paesi che tacitamente li appoggiano, vengano allo scoperto e smettano questo tipo di supporto, che alla fine non fa del bene né ai cristiani né ai musulmani». Ed è questo un capitolo importante, che smaschera l’ipocrisia di alcuni paesi islamici, Arabia Saudita e Qatar in testa, che sostengono con armi e denaro questi gruppi jihadisti. E che richiede un impegno importante, forse ancora più difficile che l'intervento militare diretto.
3. IL PROBLEMA ISLAM
Sulla spinta dei vescovi della regione, negli ultimissimi giorni anche in Vaticano si comincia a denunciare chiaramente la matrice di questa barbara violenza. È stato molto esplicito monsignor Tomasi che - pur riconoscendo la novità del «fatto che alcuni musulmani, come per esempio il segretario generale dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, si siano espressi con parole piuttosto forti per condannare questa persecuzione di cristiani innocenti» - ha indicato nel jihadismo il responsabile di questa tragedia.
Ma ieri è anche arrivato un documento ufficiale del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso che ha condannato la «restaurazione del Califfato» e «le pratiche indegne dell’uomo» messe in atto dagli jihadisti dello Stato islamico. E chiamando tutti i leader religiosi a fare pressioni sui rispettivi governanti per «far cessare questi crimini», afferma che «tutti devono unanimemente condannare senza alcuna ambiguità questi crimini e denunciare l’invocazione della religione per giustificarli». Altrimenti, dice il documento, anche il dialogo interreligioso perderà qualsiasi significato e credibilità.
C’è però un passo in più da fare, un passo anzitutto culturale che sarà difficoltoso compiere visto che a casa nostra domina un'ideologia dialogante e pacifista, dentro e fuori la Chiesa. Lo ha indicato molto chiaramente l’arcivescovo caldeo di Mosul, Amel Nona, in un’intervista al Corriere della Sera (clicca qui): «Per favore, cercate di capirci. I vostri principi liberali e democratici qui non valgono nulla. Occorre che ripensiate alla nostra realtà in Medio Oriente perché state accogliendo nei vostri Paesi un numero sempre crescente di musulmani. Anche voi siete a rischio. Dovete prendere decisioni forti e coraggiose, a costo di contraddire i vostri princìpi. Voi pensate che gli uomini siano tutti uguali. Ma non è vero. L’islam non dice che gli uomini sono tutti uguali. I vostri valori non sono i loro valori. Se non lo capite in tempo, diventerete vittime del nemico che avete accolto in casa vostra».
Sono parole che non hanno bisogno di spiegazioni, e non nascono semplicemente dal momento drammatico che la comunità cattolica di Mosul sta vivendo. È un invito a non essere ingenui nei confronti dell’islam, a capire le differenze di pensiero per evitare atteggiamenti autolesionisti, è un avvertimento sui rischi mortali di una immigrazione non controllata e non governata (dice nulla che a sinistra vogliano aprire le porte a tutti gli immigrati islamici ma poi storcono il naso se le diocesi italiane si mobilitano per accogliere i cristiani iracheni?).
Non sono pericoli lontani nel tempo, anche se ci farebbe piacere credere il contrario c'è una guerra dichiarata: in Siria e Iraq stanno già combattendo tanti cittadini europei, sono solo l’avanguardia di un fondamentalismo che in Europa ha già messo radici mentre le autorità civili si girano per non guardare o addirittura ne facilitano la penetrazione.