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PERSECUZIONE

Cristiani iracheni: "Abbiamo bisogno che ci portiate da Gesù"

«La vostra resistenza è martirio, rugiada che feconda. Vi piegate con dolore, ma avete la forza di portare avanti la vostra fede, che per noi è testimonianza» (Papa Francesco ai cristiani iracheni).

Esteri 10_12_2014
Erbil, rifugiati cristiani nell'Ankawa Mall

«La vostra resistenza è martirio, rugiada che feconda. Vi piegate con dolore, ma avete la forza di portare avanti la vostra fede, che per noi è testimonianza». Ha usato queste parole papa Francesco nel videomessaggio che ha inviato ai cristiani iracheni esuli a Erbil, in occasione della festa dell'Immacolata. Giorno particolarmente significativo per la comunità fuggita da Mosul che proprio nella chiesa dell'al Tahira - il titolo arabo che sta a indicare l'Immacolata - avevano uno dei loro simboli più cari. Un simbolo trasformato oggi in prigione dalla follia crudele dello Stato islamico.

Nel freddo dell'inverno del Kurdistan il loro martirio oggi ha la sua immagine simbolo nelle settanta famiglie che vivono nell'Ankawa Mall, un centro commerciale che era in costruzione quando sono arrivati qui in estate e che con qualche divisorio di fortuna è diventato la loro casa precaria e comunque esposta alle intemperie. Ma è un martirio fatto anche di sofferenze molto più quotidiane.

Lo racconta in una lettera suor Maria Hanna, priora delle Domenicane di Santa Caterina da Siena, una congregazione femminile fondata proprio a Mosul nel 1877 dai domenicani francesi. «Dopo quattro mesi d'esilio non ci sono segni di speranza che la situazione si possa risolvere pacificamente - scrive con amarezza la religiosa irachena -. Non possiamo pensare e prendere decisioni, tutto è vago e ci sentiamo come se stessimo vivendo un incubo. Il cristianesimo in Iraq si sta dissanguando; molte famiglie se ne sono andate e molte altre stanno partendo per il Libano, la Giordania e la Turchia, preparandosi per una seconda migrazione e un futuro incerto».

Proprio questo senso di impotenza è probabilmente il martirio più grande. «Sono stati fatti molti sforzi per fornire container ed affittare case e appartamenti - continua suor Maria Hanna -, ma non è stato sufficiente, il numero delle persone sfollate continua a crescere ogni giorno. Molti arrivano dal freddo, dalle zone montagnose. Psicologicamente la gente è stanca, spaventata, confusa e irritata - e chi potrebbe dare loro torto? Sono senza lavoro, i bambini non vanno a scuola e i giovani attendono ancora di poter cominciare il proprio anno accademico. Alcuni hanno provato a iscriversi alle università curde, ma non sono stati accettati. Tutto questo sta creando sofferenze tremende nelle famiglie e tra i risultati ci sono anche abusi e rapporti malsani. I problemi ci sovrastano completamente: è come se i nostri sforzi non portassero a nulla».

C'è addirittura una sofferenza un po' beffarda per questa gente spogliata di tutto: «Anche il denaro che possiedono non può essere prelevato dalle banche, perché il governo centrale ha congelato i loro conti correnti - spiega la suora -. Così la gente cerca lavoro disperatamente, è pronta a lavorare anche per un salario minimo».

Pure a Baghdad arrivano profughi dal Nord: a raccontarlo è padre Luis Montes, un sacerdote argentino dei Missionari del Verbo Incarnato che svolge il suo ministero nella capitale irachena. «Nel nostro quartiere - scrive - c'è una scuola dei padri carmelitani dove si incontrano decine di famiglie di rifugiati venuti dalla zona conquistata dallo Stato Islamico. La maggior parte si ferma qui a Baghdad solo il tempo necessario per ottenere i propri documenti e poi tornare al nord, in qualche campo per rifugiati o a casa di qualche parente. Questo perché molti nella fuga da Mosul non hanno potuto prendere neppure le carte d'identità o i passaporti oppure glieli hanno sequestrati i terroristi. Il tempo di attesa varia da una settimana a qualche mese a seconda del tipo di documento che manca. Per questo il numero di famiglie ospitate nella scuola varia: ci sono stati momenti in cui erano anche 90 famiglie, adesso sono 60. Vanno e vengono». 

Con loro padre Montes qualche giorno fa ha celebrato la Messa: «È gente a cui è stato strappato tutto: sono fuggiti senza nulla - racconta -. Non hanno più casa, automobile, denaro, medicine, lavoro, non hanno un posto dove posare il capo. Senza dubbio portano con loro molti segni di disperazione. Facce serie, certo. Tantissima sofferenza. Però tutto questo non è riuscito a strappare loro la fede e nemmeno la pace interiore. Alla più piccola occasione vedi spuntare comunque un sorriso. Guardandoli non puoi che essere pieno di ammirazione».

Un martirio che diventa testimonianza, come dice il Papa. Ma che non per questo diventa meno duro: chiedono di non essere dimenticati questi fratelli. Chiedono che non smettiamo di indignarci per questa loro sofferenza atroce. Ci chiedono di farci carico davvero della loro condizione. «Ogni giorno speriamo che il domani sia migliore - conclude la sua lettera suor Maria Hanna -, ma ogni domani qui sembra portare ancora più lacrime e sofferenze. “Dal profondo a te grido Signore, quando verrai in nostro aiuto?”. Contiamo disperatamente sulle vostre preghiere. Abbiamo bisogno che ci portiate da Gesù come è successo al paralitico nel Vangelo».