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IL FILM

C’mon C’mon, specchio di una società senza madri né padri

Un giornalista radiofonico viene coinvolto dalla sorella nella cura di Jesse, il nipotino di nove anni, con genitori senza equilibrio. Commuove l’affetto dello zio in "C’mon C’mon" (regia di Mike Mills), ma non convince la ricetta che propone al nipote. Serve rimettere al centro la questione educativa e ricostruire la famiglia.

Cultura 03_08_2022
Una scena del film C’mon C’mon

Cosa vuol dire oggi essere figlio, fratello, genitore, zio, amico? Nella nostra società liquida e disgregata, non meno di quella americana, sono domande che dovremmo porci con urgenza. Il bel film C’mon C’mon, vincitore del National Board 2021 e diretto da Mike Mills, ci presenta le risposte dei bambini e ragazzi americani di New York, Los Angeles e New Orleans, che mostrano senza pudore le loro paure, i loro desideri e affetti più profondi, spesso lacerati. Johnny, un giornalista radiofonico meravigliosamente interpretato da Joaquin Phoenix, viaggia negli States intervistando i giovani americani di ogni razza e ceto sociale su come immaginano il futuro, quali sono le loro speranze, i loro sogni. Ma proprio mentre lavora al suo progetto itinerante, a un anno dalla dolorosa scomparsa della madre, viene coinvolto dalla sorella Viv nella cura di Jesse, il nipotino di nove anni, intelligentissimo ma non del tutto sereno. Sua mamma Viv, docente e intellettuale sopra le righe, deve infatti allontanarsi per occuparsi del marito ricoverato in clinica, che sta male e stenta a ritrovare quell’equilibrio psichico che gli consentirebbe di fare finalmente da padre a loro figlio.

Zio e nipote si ritrovano così a vivere insieme e anche a viaggiare insieme, quando gli impegni di lavoro di Johnny diventano improrogabili ed è costretto a partire. Lui non sa nulla di bambini (è stato lasciato dalla moglie) né di principi e metodi educativi, che paradossalmente impara dal ragazzino. Jesse infatti gli propone il manuale pedagogico della mamma, che ha accompagnato il suo tormentato percorso con lei e gli ha permesso comunque di crescere. Quello di Johnny diventa così un viaggio nell’essere genitore, nelle famiglie ferite ma non sconfitte, nella difficile routine dei rapporti quotidiani, efficacemente descritti nel film con un intenso bianco e nero, che ci introduce negli scorci squallidi o scintillanti delle grandi città americane. Certamente quelle sterminate metropoli sono diverse dalle nostre città, ma non molto dissimili nello stile di vita familiare. La macchina da presa inquadra impietosamente, ma con grande rispetto, solitudini, separazioni, violenze domestiche, ma apre squarci anche sui coraggiosi tentativi di resistere in mezzo alle difficoltà dell’esistenza.

C’mon C’mon” (forma contratta di “Come on Come on”) significa infatti “andiamo avanti, forza”, l’unica risposta che sembra possibile di fronte alle inevitabili sofferenze che ci travolgono. È la preziosa lezione acquisita da Jesse, ragazzino sfortunato che non può che accettare la famiglia tormentata in cui è nato. Ma diventa prospettiva di vita anche per il solitario e disincantato Johnny, che ha vissuto con sofferenza la morte della madre, litigato con la sorella, ed è separato dalla moglie. Cosa può fare lo zio giornalista, catturato perennemente dal lavoro, con un ragazzino il cui gioco preferito è immaginare costantemente di essere un orfanello in cerca di casa? Può forse davvero sostituire la figura paterna, il vero assente? Pur non accettando alcun ruolo definito, Johnny ci accompagna in un viaggio nella genitorialità, i cui connotati sono ormai indistinti, se non addirittura sconosciuti, nel mondo americano come pure in quello europeo. Nonostante la commozione suscitata dai tanti passaggi struggenti, talvolta persino divertenti del film, la storia dei due protagonisti ci lascia tuttavia un po’ di amaro in bocca.

Il piccolo Jesse, a nove anni, è infatti un bambino fin troppo maturo e insieme capriccioso e tirannico. Come tutti i ragazzini che non sono accompagnati da adulti certi e sereni. Suo zio invece si trova nelle vesti di padre senza sapere da che parte cominciare, e quasi si fa guidare dal nipote, vivace e a tratti saputello, incredibilmente capace di accompagnarlo in un percorso di riscoperta di sé. Non tutto fila liscio, ovviamente, ma il messaggio è chiaro: bisogna comunque provarci, l’affetto e la sincerità in qualche modo aiuteranno. Occorre in ogni caso “andare avanti”, come ripete il “giovane adulto” Jesse, interpretato dal bravissimo Woody Norman. Sembra quasi che sia lui a prendersi cura dello zio, uomo buono, solitario e ferito, indicandogli come fare il padre, dato che per il ragazzino la protezione paterna è stata fino a quel momento più che altro un sogno e ben poca realtà. La richiesta di Jesse, che rivolge una valanga di domande imbarazzanti allo zio, è di non ricevere in risposta i soliti bla bla bla tipici del mondo adulto, ma esperienze di vita, favole e giochi, unici messaggi chiari e convincenti per un bambino.

In una società impaurita, smarrita e in crisi come la nostra, di qua e di là dell’Oceano, non sono certo sufficienti le risposte vaghe di uno zio-padre improvvisato. Ci commuove infatti il suo affetto sincero per il nipote, che gli viene improvvidamente affidato da una sorella che sembra non avere altra via d’uscita. Ma non ci convince la ricetta che propone al piccolo Jesse, perennemente inquieto e profondamente infelice. “Forse dovremmo lasciare che le cose vadano da sole, vedere come va…”, gli dice. Ma in questa filosofia di vita manca la consapevolezza che quella educativa è la prima e più grave urgenza del nostro tempo. È essenziale ricominciare dalla famiglia, oggi tremendamente disgregata e confusa. Avendo però in mente un quadro chiaro e veritiero delle tragiche condizioni in cui versa oggi. Solo così si potrà riprendere con coraggio a ricostruire quella cellula fondamentale che è alla base di una società serena e solidale, aperta alla speranza e alla gioia.