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DIRITTI UMANI

Cina e Hong Kong, due sistemi nello stesso paese

Hong Kong, è polemica per il ritardo con cui sono stati incriminati sette poliziotti, accusati del pestaggio di un attivista un anno fa. Polemica anche per l'incriminazione dell'attivista stesso. Ma intanto, nella Cina Popolare, la polizia compie arresti arbitrari e silenzia ogni opposizione.

Esteri 16_10_2015
Ken Tsang, attivista di Hong Kong

Un anno fa, nell’ottobre del 2014, le proteste per la democrazia di Hong Kong erano al loro culmine. In quel frangente, il 15 ottobre 2014, un gruppo di sette poliziotti ammanettava e picchiava un attivista, Ken Tsang. Un video di una televisione locale mostrava gli agenti in borghese intenti a percuoterlo per alcuni minuti. Ieri, a un anno dai fatti, quei poliziotti sono stati formalmente incriminati dalla magistratura per violenza aggravata e potrebbero essere condannati a una pena detentiva. E anche Ken Tsang è stato incriminato per resistenza a pubblico ufficiale. E’ un fatto giudiziario che appare quasi normale ai nostri occhi, abituati come siamo alle indagini che seguono ogni grande scontro fra polizia e manifestanti, come il G8 di Genova, in cui si cercano responsabilità di entrambe le parti, poste su un piano di parità. Ma non è normale, considerando che qui parliamo di Hong Kong, una città che è formalmente parte della Cina, cioè parte di un regime in cui la polizia ha mano libera contro i dissidenti.

La protesta contro la riforma autoritaria del governo di Hong Kong è finita con una vittoria per la Cina e una sconfitta dei democratici nel dicembre del 2014. Da allora, la città-Stato è ancora più dipendente dal regime di Pechino. Dal 2017 non si terranno libere elezioni per eleggere il nuovo governatore, come era stato promesso negli accordi fra Pechino e Londra, dopo il passaggio della città-Stato sotto la piena sovranità cinese nel 1997. La polizia di Hong Kong, che segue ancora regole ereditate da quella britannica, si è distinta per aver risolto la questione in modo quasi pacifico. Quasi. Perché alcune violenze sono state commesse. Fra queste, il video del pestaggio di Ken Tsang è diventato virale sui social network e sui media di tutto il mondo, causando scalpore e un’ondata di critiche contro le forze dell’ordine locali. Nel novembre successivo, il comando della polizia ha sospeso dal servizio i sette agenti colpevoli dell’aggressione ed ha annunciato l’apertura di un’inchiesta, ma non ha rivelato i nomi dei responsabili. Solo dopo un anno si è mossa la magistratura. Ma anche per il manifestante picchiato. Protesta l’avvocato di Ken Tsang: la sua incriminazione è “ridicola e contraria all’evidenza dei fatti”. Perplessità sulla stampa di Hong Kong: è passato troppo tempo prima di arrivare a un processo degli agenti. Risponde un rappresentante sindacale della polizia: “La polizia e il Dipartimento della Giustizia hanno svolto il loro lavoro in tutta trasparenza e hanno sempre seguito le procedure stabilite”. L’impressione è che Hong Kong abbia fatto un passo in più verso il totalitarismo cinese.

Può anche essere. Ma proprio l’incriminazione di un gruppo di poliziotti dimostra la distanza fra il sistema di Hong Kong e quello della Cina Popolare. In Cina sono comminate punizioni a dirigenti e alti funzionari di polizia, ma per motivi politici, più che per accuse ben specifiche. Wang Lijun, capo della polizia di Chongqing, ad esempio, venne arrestato nel 2012, incriminato per un omicidio tuttora misterioso e condannato a quindici anni di carcere: tramite il suo processo, il regime cinese purgò dal partito lo “scomodo” dirigente Bo Xilai, di cui Wang era il “braccio destro” nelle campagne anti-corruzione. Tolti casi (politici) di questo genere, o in rare occasioni di punizioni esemplari a seguito di scandali nazionali, la polizia cinese agisce impunita, a tutti i livelli. Lo dimostra il programma Skynet, un incubo alla Orwell realizzato per tenere sotto controllo i cittadini delle grandi città. E lo dimostra la cronaca delle ultime settimane.

Il 12 ottobre scorso, riferisce l'agenzia Asia News: “Il governo cinese, con la complicità di quello birmano, è riuscito ad arrestare il figlio 16enne di un avvocato ‘scomparso’ dallo scorso 9 luglio dopo un colloquio con le autorità. Gli agenti della polizia del Myanmar hanno fermato Bao Zhuoxuan – anche noto come Mengmeng – e due uomini che cercavano di aiutarlo a fuggire negli Stati Uniti. L’arresto è avvenuto a Mong La, cittadina del confine birmano, ed è stato confermato dall’attivista Fengsuo Zhou”. Due abusi in una sola notizia: l’arresto arbitrario di un minorenne e la scomparsa nel nulla, dopo un interrogatorio, di sua madre, l’avvocatessa Wang Yu. Non è chiaro di cosa sia accusato questo minorenne, se non di essere suo figlio e di aver cercato di fuggire dalla Cina. Fengsuo Zhou dichiara ad Asia News: “Il piano era quello di portare il ragazzo in Thailandia, dove lo avrei incontrato per chiedere poi rifugio agli Usa. Insieme a lui sono stati arrestati Tang Zhishun, ingegnere di Pechino, e l’attivista Xin Qingsian di Chengdu. Siamo molto preoccupati. Sappiamo che il governo vuole usare questo ragazzo come ostaggio contro i suoi genitori, entrambi famosi attivisti per i diritti umani”.

L’arresto di Bao avviene nell’ambito di una campagna lanciata dal regime contro gli avvocati che difendono gente comune da abusi di potere. Gli arresti, tutti arbitrari, sono ormai circa 300 in tre mesi. La grande retata, incominciata alla metà di luglio in quindici maggiori città cinesi, prende di mira soprattutto gli associati dello studio legale Fengrui di Pechino. Questo, secondo il Quotidiano del Popolo, “è divenuto sin dal 2012 la piattaforma attraverso cui gli accusati hanno cercato di infrangere l’ordine sociale”. In realtà, lo studio assisteva gratuitamente le vittime degli abusi delle autorità. Nell’ambito di questa campagna, gli avvocati vengono fermati dalla polizia, senza alcuna accusa specifica, ma per un interrogatorio. Nella maggior parte dei casi si mira ad ammonirli e intimidirli, poi vengono rilasciati. Ma almeno quaranta sono ancora in carcere senza processo o sono letteralmente “scomparsi”.

Ad Hong Kong è ancora rispettata la libertà di religione. In Cina esiste solo sulla carta. Quasi tutti gli avvocati arrestati sono di fede cristiana. Uno di essi, Zhang Kai, è impegnato nella battaglia legale per fermare la campagna governativa di rimozione dei crocefissi dalle chiese della provincia di Zhejiang.

C’è ancora una enorme differenza fra Hong Kong e la Cina. Si può pensare tutto il male possibile per la vicenda del pestaggio di Ken Tsang, per il carattere salomonico dell’incriminazione di picchiatori e picchiato, per la lentezza con cui si è mossa la giustizia. Ma sono inezie a confronto della macroscopica ingiustizia del sistema cinese. Hong Kong diventerà totalitaria come Pechino? La direzione pare essere quella. Ma per ora regge il modello dei “due sistemi, un paese”, deciso negli accordi del 1997 fra Regno Unito e Cina.