Che differenza c’è tra il narcisismo e il successo (vero)?
Le librerie sono piene di testi su come divenire persone di successo, ma il problema è che per la cultura dominante esso si basa sulla triade celebrità-potere-denaro, in cui si esalta l’io senza vedere un altro da sé. In realtà, il vero successo ha una valenza esistenziale profonda. Lo ricorda, facendo esempi di personaggi contemporanei, il saggio L’inganno del successo (Ares) di Paola Versari.
Gli scaffali delle librerie sono pieni di testi su come far successo o divenire persone di successo. Ma possono bastare 15 minuti di successo che la vita riserva a ciascuno, come afferma Andy Warhol, per essere felici? Riecheggia in questa domanda quella manzoniana legata alle imprese napoleoniche: “Fu vera gloria?”. Nell’imperante cultura narcisista la triade celebrità-potere-denaro costituisce in realtà una mera illusione, un insidioso auto-inganno, piuttosto che il veicolo per il raggiungimento di un’autentica realizzazione esistenziale, dal momento che “il vero successo di un’esistenza sta proprio nella capacità di trovarne i significati”.
Per Paola Versari, psicoterapeuta formatasi alla scuola della logoterapia di Viktor Frankl e autrice del recente saggio L’inganno del successo (Ares 2019, pp. 144), “il successo ha una ‘valenza esistenziale’ che contrasta con il modo di essere narcisistico ed egocentrico di chi insegue like e conferme dall’esterno, di chi brama applausi a tutti i costi, nella ricerca ossessiva di ciò che dovrebbe essere solamente un effetto”, come osserva Antonella Arioli nella prefazione a tale volume.
Insomma nell’era dell’attesa ossessiva di un like che esalti l’ego, nella quale l’io non sembra neanche più intravedere un ‘tu’, tutto diventa pressoché irrilevante se non è confermato dallo share, dalla certificazione di essere stati riconosciuti, osannati, acclamati. Sul palco come nella vita un artista, sia egli attore o cantante, ricerca nell’applauso il riconoscimento degli altri. La negazione dell’applauso diviene quindi una sorta di un misconoscimento della propria stessa identità. “E quando tu hai costruito tutta la tua vita dentro questa modalità eccitatoria di riconoscimento continuo e di rincorsa - rileva Giuseppe Bevilacqua - è come una droga... non ti basta mai”. Di qui “faccia tosta e voglia di apparire sono diventati ingredienti essenziali per acquisire visibilità mediante talk e reality show, in cui l’immagine viene anteposta alla sostanza”. Eppure “la gratificazione narcisistica nutre solo quell’immagine con la quale sempre più spesso ci si identifica, ma non riesce a rispondere alle domande di senso dell’uomo” perché non può dissetarne l’anelito del cuore.
È questo l’inganno del successo: ottenere una sterile e illusoria autocelebrazione che dimentica ogni altro da sé. Al contrario, abbandonando l’io come ombelico del mondo, è possibile considerare “il successo come ottenimento di un risultato, come realizzazione di un compito”, che è dunque in tal senso, come chiarisce la Versari, “qualcosa di estremamente auspicabile e decisamente necessario per la stessa sopravvivenza della specie”. Sulla base della propria esperienza di psicoterapeuta nel solco dello psichiatra austriaco Frankl, sopravvissuto ai campi di concentramento e dunque capace di trovare un successo esistenziale persino nei luoghi dell’abisso del dolore, l’autrice aiuta a comprendere infatti come “solo dedicando la propria vita a un compito e all’incontro con l’altro sia possibile pervenire al successo autentico, quello che apre alla vita vera, che appaga pienamente e regala attimi di felicità autentica perché pregni di un significato che non conosce inganno”.
Nei diversi contributi raccolti nel volume viene denunciata la riduzione antropologica che contraddistingue la cultura contemporanea, per la quale l’uomo è un omuncolo a due dimensioni, una biologica e l’altra psicologica, mentre gli viene negata la terza, quella spirituale, che è invece proprio ciò che lo rende un ‘animale di senso’, e non semplicemente un animale capace di soddisfare solo bisogni primari e istinti con i surrogati dello sballo e la brama di piaceri. Successo e popolarità perseguiti con tenacia nel vano tentativo di mettere a tacere quel vuoto esistenziale che affiora ogniqualvolta si guarda con verità allo specchio, riconoscendo un’identità che spesso non collima con l’immagine di sé che rimbalza sui social.
Ci sono però anche diversi personaggi celebri che non hanno ricercato le luci della ribalta. Uno di questi è Fabrizio Frizzi, che è stato umile, semplice e riservato anche quando ha avuto successo. La sua figura viene proposta in queste pagine attraverso il ricordo vivo di chi l’ha conosciuto. Il noto presentatore faceva del bene nel quotidiano senza suonare la tromba dinanzi a sé; accompagnava i malati a Lourdes e donò il midollo osseo a una ragazza senza preoccuparsi di farlo sapere prima ai media. Egli si è così ‘realizzato’ proprio perché non ha mirato all’autorealizzazione. Ecco perché “la massima evangelica secondo cui chi perde la propria vita la troverà è anche una massima di igiene psichica”. D’altra parte, scrive Frankl, “l’uomo si rinchiude nell’autorealizzazione quando naufraga la realizzazione del senso, quando cioè non è più in grado di trovare un significato che valga la pena di realizzare”.
In cosa consiste allora il vero successo? Nel fare bene il proprio compito senza preoccuparsi dello share; nel vivere andando oltre se stessi guardando al prossimo; nell’imparare a stare dinanzi alla realtà anche quando è ostica e dura, soprattutto nella sofferenza che tanto angoscia l’uomo contemporaneo proprio perché la vive nell’attesa che passi ma senza conferirle un senso e un significato. Che da tale atteggiamento ne derivi poi il successo o anche uno soltanto dei fattori della triade celebrità-potere-denaro deve essere un effetto, ma non può esserne lo scopo primario ed esclusivo di un’azione. Infine poiché ogni fatto è gravido di senso, si può vivere paradossalmente un ‘successo’ anche nell’insuccesso, perché niente accade a caso o naufraga nel nulla, ma tutto concorre al bene di coloro che amano Dio (Rm 8, 28): anche in un campo di concentramento, come testimonia l’esperienza umana, tragica ma feconda, dello stesso Viktor Frankl.