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MEDIA E POTERE

"Censurati i social media sul Covid": un giudice inchioda Biden

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La Camera, a maggioranza repubblicana, propone l'impeachment per gli affari di famiglia in cui è coinvolto soprattutto il figlio Hunter. Ma il colpo più duro arriva nel giudizio d'appello nel caso Missouri vs Biden: il governo ha violato il Primo Emendamento (libertà di espressione) per aver spinto i social media a censurare notizie su Covid, vaccini ed elezioni del 2020. 

Esteri 13_09_2023
Joe Biden

La domanda che si fanno in molti è se la tempesta che si sta abbattendo nelle ultime ore su Joe Biden potrà incidere sull’esito delle elezioni presidenziali Usa. I repubblicani se lo augurano, i democratici lo temono.

Il repubblicano Kevin McCarthy, speaker della Camera, ieri ha parlato espressamente di impeachment per Biden, sostenendo che l’indagine conoscitiva svolta nei mesi scorsi dal ramo del Parlamento a maggioranza repubblicana ha fatto emergere “la cultura di corruzione della famiglia Biden”. Verrà dunque messa ai voti un’inchiesta formale della Camera sul Presidente, destinata a sfociare in un’incriminazione e in un processo che si svolgerebbe davanti al Senato trasformato in organo giudicante. Biden ha subito reagito bollando l’iniziativa come un atto di estremismo politico. Ma l’episodio non è isolato.

Addosso all’attuale Presidente degli Stati Uniti è piovuta un’altra tegola non da poco. La quinta sezione della Corte d’Appello degli Stati Uniti, nell’ambito del processo Missouri vs. Biden, ha stabilito con una sentenza che la Casa Bianca, l’amministrazione Biden e l’Fbi hanno probabilmente violato il primo emendamento della Costituzione americana, che sancisce la libertà d’espressione, spingendo le compagnie di Big Tech a rimuovere dai social alcuni post che facevano disinformazione su Covid ed elezioni. In altre parole, il governo americano avrebbe influenzato impropriamente le decisioni di tutte le principali piattaforme social riguardo la pubblicazione o la soppressione di post inerenti la pandemia da Covid-19, ma anche le elezioni del Congresso svoltesi nel 2022. Per quale finalità? Con l’obiettivo di proporre una narrazione in linea con quanto sostenuto dall’amministrazione e spingere il pubblico a vaccinarsi. I giudici adombrano il sospetto che quest’influenza della Casa Bianca sulle piattaforme sia tuttora attiva.

Ora il sospetto che anche in vista delle presidenziali del 2024 l’amministrazione Biden punti a pilotare in funzione propagandistica i contenuti veicolati in Rete è sempre più forte e sembra avere ringalluzzito i repubblicani, che gridano alla censura e alla manipolazione. La sentenza viene considerata una vittoria dai conservatori che hanno denunciato a più riprese in questi anni i tentativi di controllo dei social da parte dei democratici, che hanno portato per esempio a bandire Donald Trump dalle principali piattaforme dopo l’assalto al Congresso.

La vicenda esaminata dalla Corte d’Appello Usa ha preso avvio il 4 luglio 2023, quando il giudice distrettuale Terry A. Doughty ha preso la decisione di imporre 10 specifiche restrizioni all’attività del governo Usa, accusato di aver influenzato impropriamente le decisioni di tutte le principali piattaforme social riguardo la pubblicazione o la cancellazione di post inerenti alla pandemia da Covid-19. La Corte d’Appello ha però rivisto questo provvedimento, con una sentenza che respinge ben nove di questi divieti. Il decimo, invece, è stato modificato per limitarlo ad evitare gli sforzi volti a “costringere o incoraggiare in modo significativo le società di social media a rimuovere, eliminare, sopprimere o ridurre, anche attraverso l’alterazione dei loro algoritmi, i contenuti pubblicati sui social media contenenti contenuti protetti”.

Secondo la sentenza “negli ultimi anni un gruppo di ufficiali federali è stato regolarmente in contatto con quasi tutte le maggiori compagnie di social media americane in merito al diffondersi della ‘disinformazione’ sulle loro piattaforme”. Le grandi compagnie che operano nel campo dei social media avrebbero dato accesso agli ufficiali ad un “sistema di segnalazione accelerato”, oltre ad aver “declassato o rimosso i post segnalati” e “rimosso utenti”. Le piattaforme social avrebbero anche “cambiato le loro politiche interne per individuare più contenuti segnalati e inviato costantemente rapporti sulle loro attività di moderazione agli ufficiali”. Da quanto emerge, il governo Biden ha “costretto le piattaforme a prendere le loro decisioni di moderazione con messaggi intimidatori e minacce di conseguenze negative”. Tra le piattaforme coinvolte figurano anche i colossi Facebook, Twitter (ora X), YouTube e Google.

Dalla lettura di alcuni documenti resi pubblici il 6 gennaio, emergerebbe un ruolo cruciale del direttore dei media digitali della Casa Bianca, Ron Flaherty che, in una mail inviata ad un dirigente di Facebook il 14 marzo 2021, sottolineava come il social partecipasse alla “diffusione di idee che contribuiscono all’esitazione vaccinale”. A fronte dell’esitazione del dirigente della piattaforma, Flaherty aveva preteso un cambio delle politiche di moderazione, affermando: “Siamo seriamente preoccupati dal fatto che il vostro servizio sia uno dei principali motivi che spingono all’esitazione vaccinale, punto… Vogliamo sapere che ci state lavorando, vogliamo sapere come possiamo aiutarvi e vogliamo sapere che non state facendo il gioco delle tre carte…”. A fronte delle pressioni, tanto Facebook quanto tutti gli altri social coinvolti avrebbero ceduto alle richieste governative.

Pare che il Dipartimento di giustizia voglia fare ricorso alla Corte Suprema, ma intanto questa condanna per le ingerenze che l’amministrazione Usa avrebbe esercitato nei confronti dei colossi del web getta una luce fosca sui rapporti tra potere politico e mondo dell’informazione e svela i numerosi e forti condizionamenti che quest’ultimo ha subìto su scala planetaria durante la pandemia.