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IL FILM DEL MOMENTO

C'è ancora domani, stereotipi per una narrazione contro la famiglia

La Bussola ha visto C'è ancora domani. Un concentrato "a tesi" di stereotipi per fissare nel voto alle donne l'inizio della loro salvezza da padri-mariti violenti, fascisti e donnaioli. E colpire la famiglia cristiana. Eppure è la generazione dei nostri nonni che ha ricostruito questo Paese dopo la guerra. Si meritavano questo quadretto?

Cinema e tv 29_11_2023

Anche la Bussola è andata a vedere C’è ancora domani, il film di e con Paola Cortellesi che è sulla bocca di tutti. Non per voler uscire a tutti i costi dal coro delle lodi, ma non ci è piaciuto. Non solo per il messaggio, ma anche per lo stile falsamente neorealista, che esibisce con ambientazioni un po’ pacchiane. Il cinema neorealista aveva l’ambizione di voler raccontare con realismo, appunto, uno specchio di realtà e quindi di società.

Quindi se l’ambizione è quella di voler raccontare, denigrandolo, lo schema della famiglia patriarcale e del pater familias, che esce di casa solo per andare a lavorare, a donnacce e a Messa e nella quale solo la donna in quanto donna si salva, bè, allora di neorealismo c’è proprio poco, perché l’Italia che uscì dalla Seconda guerra mondiale non era certo questo. O meglio, non era soltanto questo, anzi, era soprattutto molto di più. Era l’Italia dei padri che ci hanno fatto uscire dalla guerra costruendo sulle macerie del Fascismo e rifiutando le sirene del comunismo.

Il film invece è un film contro la famiglia, dove i bambini sono pestiferi rompiscatole senza umanità e affetto da dare e ricevere, le figure maschili paterne sono schifose, un misto di violenti, puttanieri e cravattari dove il machismo si tramanda di padre in figlio. Un film contro il maschio un po’ stucchevole e scontato, nel quale l’unica figura virile positiva è quella dell’amore di gioventù della protagonista (Vinicio Marchioni) che però è un fallito nel lavoro e parte per il nord a cercare fortuna.

Tutti gli altri maschi sono pessimi: padri descritti unilateralmente come violentatori di donne, usurpatori, simpatizzanti fascisti, fannulloni. Anche i datori di lavoro, quelli maschi danno paghe misere alle donne perché sono donne. Che borsa, che noia. Una tesi dall’inizio alla fine del “dagli al maschio” sicuramente insufficiente per raccontare la società post bellica, così articolata, così contraddittoria, ma anche così bella, sognatrice, con la speranza del futuro, ancora pervasa di un briciolo di umanità derivante da un cristianesimo vissuto con fede che poi ci ha dato l’ultimo boom demografico che l’Italia conosca.

Insomma, contro la famiglia vista come luogo di sofferenze, di sacrifici, di miseria, di vendette (che poi, Delia la protagonista, pensando di “salvare” la figlia le fa una bella carognata, ma sembra che le azioni sbagliate delle madri siano giuste, sicuri?). Eppure non fu proprio la famiglia a costituire il collante di tenuta di una società uscita disgregata da una guerra civile feroce? Non è stata la famiglia che ha rappresentato la base per la ricostruzione anche morale del Paese? E non è forse la famiglia la cellula nucleare dentro la quale l'uomo del dopoguerra ha potuto immaginare un futuro migliore, proprio perché era la famiglia, con un paese allo sbando e con esso tutte le sue strutture, scuola compresa, ad aver tenuto all'onda d'urto del conflitto? 

Ma C'è ancora domani è anche un film contro la Chiesa raccontata con il solito cliché della Chiesa preconciliare vecchia e disumana, dove alla domenica vanno a Messa appena due famiglie (un po' improbabile per l'epoca), compresa quella di Delia e Ivano (Valerio Mastrandrea) e il prete è lontano dal popolo, mentre l’unica che prega è la vecchina che va a sgranare Rosari per defunti che manco conosce, come se la fede che accompagnava questi padri violenti non fosse altro che uno stereotipo.

Ecco, stereotipo. Il film è un concentrato di stereotipi e luoghi comuni dai quali non si esce. Il tutto pur imporre la tesi di fondo: la condizione della donna nell’Italia cristiana e post-bellica era quella di una schiava, oggetto del desiderio, serva, lavoratrice sottopagata e calpestata, ma a salvarla è stato il voto. Eh sì, perché nella tesi del film, tutto si compie con il suffragio universale, che libererà la donna dalla sua condizione dandole finalmente emancipazione, istruzione, lavoro.

Fortuna che per le donne c’è stato il voto (per il partito comunista ovviamente, che si intravvede nell’ultima scena nel coro “A bocca chiusa” di Daniele Silvestri) dimenticando – anche qui – che le donne votarono in massa per la Democrazia cristiana.

Non che il film non sia gradevole sotto certi aspetti, per carità. La Cortellesi è brava, ma il meglio lo dà nei dialoghi con l’altra donna protagonista, Marisa, interpretata da una scoppiettante Emanuela Fanelli, vera sorpresa di questa pellicola perché padrona di un personaggio solare, sereno, speranzoso. Le scene dove le due si confidano, ridono, fumano, si spalleggiano a vicenda meritano il biglietto e strappano sorrisi. Alcune scelte sono a tratti liriche e innovative. Sentire canzoni “del futuro” come “La sera dei miracoli” di Dalla e “M’innamoro davvero” di Concato dà un tocco di freschezza a-storica che coinvolge.

Così anche le scene di violenza del marito, mascherate da danza, per rimarcare la capacità di Delia di coprire davanti ai figli quelle umiliazioni e quel dolore. Valerio Mastrandrea è, pur nella sua durezza e distacco, un marito violento e manesco, ma troppo mono-tono nella sua irrimediabile “ferocia”: possibile che questi uomini fossero solo delle bestie? Non c’è neanche una sfumatura, un pizzico di umanità in questi padri padroni e mariti maneschi? Questi uomini, che poi sono i nostri nonni erano davvero così?

L’unica “giustificazione” che Delia prova a esibire per accettare la cattiveria del marito è che «lui ha fatto due guerre».

Eppure, quella è la generazione dei ragazzi del ‘99. Quella è la generazione che ha fatto due guerre e che poi ha ricostruito l’Italia consegnandola ai figli boomer, i quali poi hanno completato l’opera del boom economico di questo Paese. Meritavano di essere inquadrati come violenti, cravattari, cattivi? No. A patto che non si voglia sposare il copione dell’ideologia.

E qui, spiace dirlo di ideologia ce n’è un po’, quanto basta per uscire dal cinema con l’amaro in bocca per l’occasione sprecata. Perché Paola Cortellesi e Valerio Mastrandrea i film sulla famiglia li sanno fare. “Figli” (2020 di Giuseppe Bonito) ad esempio, è un film sincero sui problemi delle famiglie con figli, impreziosito tra l’altro da un dialogo magnifico ed esilarante sullo scontro generazionale tra i genitori boomer ormai vecchi-nonni e i figli che per la prima volta nella storia stanno peggio dei loro padri. C’è più neorealismo in quella loro interpretazione, perché verace e non ideologica, che in tutto C’è ancora domani.

Che altro non è che un film a tesi. Quella secondo la quale le donne prima del voto erano oppresse, umiliate, violentate e trattate da serve. Poi grazie al voto la loro marcia verso l’emancipazione inizia a prendere il volo. E pare già di vedere attraverso quali "magnifiche" tappe: il divorzio, l’aborto, la contraccezione e tutto il resto del piano inclinato che facilmente si può immaginare. Adatto per un probabile sequel.



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