Cari fans della decrescita, provate a procurarvi un pasto
Visto che i sostenitori della "decrescita felice" sono sempre più numerosi, proviamo a mettere alla prova le loro teorie con la pratica quotidiana. Una giornata di pesca con metodi pre-industriali, come prescritto dai decrescitisti, risulta un lavoraccio di 8 ore per conquistare un magro pasto serale.
Le teorie della decrescita felice, in alcune nicchie (e non solo), vanno di gran moda. Di decrescenti ce n’è di ogni specie: c’è chi si limita a dire che senza computer e cellulare staremmo meglio, chi pensa di eliminare le automobili o gli aerei e tornare ai carri trainati da buoi, chi pensa che non dovremmo muoverci affatto ma tornare a piccole comunità rurali di autoconsumo regolate dal baratto e chi, infine, considera che vivremmo in modo più autentico se tornassimo tutti all’agricoltura e all’allevamento o, meglio ancora, alla caccia e alla raccolta.
Ad alcune di queste (strampalate) teorie abbiamo già dedicato un articolo di risposta. Per smontarle, però, basta un'arma più semplice e diretta: il racconto di una giornata di pesca. Che c’entra, penserà qualcuno. C’entra eccome. Sì perché in quel giorno trascorso a pescare, per la cronaca sull’incantevole isola di Procida, ho provato l’ebbrezza di procacciarmi il cibo da solo come prescritto dai decrescististi. Il che vuol dire niente rete, ma pesca rigorosamente con l’amo (e con tanto d’interminabile attesa che i pesci abbocchino) e immersioni lungo la costa rocciosa per recuperare cozze e ricci. A parte la barca a motore per andare al largo, la crema solare per proteggermi dai morsi del sole, la maschera e il boccaglio per scorgere i molluschi ancorati alla parete e sul fondale (e potrei aggiungere il cellulare per mettermi in contatto con l’amico pescatore che ci ha accompagnati, il coltello per aprire i ricci e tanti altri oggetti che mi fanno arrossire al paragone con l’uomo della pietra) ho pescato quasi come un primitivo.
Ed ecco la cronaca di quella mattinata. Alle nove ero in barca, alle nove e mezza ci siamo fermati per prendere un po’ di ricci e cozze e lo stesso, in un’altra zona, verso le undici. Le cozze sono dure da staccare dal muro perché hanno una naturale tendenza ad attaccarsi alla roccia, con cui formano quasi una struttura unica; i ricci, dalla loro, si abbarbicano alle formazioni rocciose marine e talvolta in piccole buche al loro interno. Per entrambi ho dovuto usare un cacciavite arrugginito, gentilmente prestato dal pescatore, che i primitivi non avrebbero avuto, ma anche così staccare le cozze dalla roccia e i ricci dal fondale (senza romperli o pungersi) era a dir poco faticoso. Il risultato di tre ore di lavoro sono stati una cinquantina di ricci e ad occhio un paio di chili di cozze, in grado di garantire ben poco nutrimento. Sempre per la cronaca coi ricci ho avuto un’altra esperienza negativa qualche giorno dopo a Livorno quando, in una giornata passata chinato nell’acqua (che mi ha lasciato gambe doloranti e spalle arrossate), ne ho raccolti un centinaio per poi accorgermi che la loro polpa non era sufficiente a condire una porzione di pasta.
Ma torniamo a Procida e alla pesca vera e propria. Con due ami in acqua con tanto di esca, in un paio d’ore, abbiamo catturato sei pesci, due sogliole e quattro piccoli saraghi: da soli sarebbero stati una cena magra perfino per una persona. Siamo riusciti a mangiare in due abbondante solo aggiungendo alle cozze la pasta: altrimenti anche con i ricci (che una volta aperti e puliti ti “donano” solo cinque sottilissime striscioline di carne) il desco sarebbe stato a dir poco povero.
E non parliamo della fase cucina, che ha occupato più di quattro ore (tre solo per pulire le cozze) e costringendoci a mangiare alle dieci. In tutto, a conti fatti, per una cena ho dovuto lavorare le classiche otto ore di un impiegato (che se anche guadagna solo 1.200 euro al mese ha a disposizione un reddito in grado di garantirgli un’alimentazione più abbondante della mia di quel giorno): dovessi farlo tutti i giorni non avrei a disposizione il tempo di fare nient’altro, come ad esempio scrivere questo articolo.
Certo si potrebbe obiettare che ho scelto cibi prelibati che nessun primitivo si sarebbe mai sognato di mangiare. Ma torniamo ai pesci: posto che con le sue attrezzature (zattera e amo non moderno come il mio) il primitivo ci mettesse lo stesso mio tempo, due ore per sei pesci, avrebbe avuto di sicuro più difficoltà a cuocerli senza i fornelli a gas. Poniamo un’ora, invece di venti minuti come me: fa comunque tre ore per un pasto – ribadisco – molto scarso per una sola persona. Per fare due pasti così il nostro primitivo avrebbe dovuto faticare almeno sei ore al giorno, sempre in mancanza di persone a carico (moglie, figli, anziani) in cui il tempo raddoppierebbe. Io, sempre per la cronaca, me la sono cavata con cappuccio e brioche al bar per colazione e un sostanzioso panino per pranzo.
Non sappiamo da quali dati il filosofo anarchico americano John Zerzan abbia dedotto che i cacciatori-raccoglitori del paleolitico avevano lo stile di vita «più duraturo e di maggior successo della storia dell’umanità» e addirittura «prima della civilizzazione la malattia praticamente non esisteva». Dai dati scientifici si sa che i nostri antenati morivano di media a trentacinque anni, spesso di proprio malattia. Sul fatto che lavorassero meno e con più successo forse Zerzan dovrebbe lasciare la frenetica Seattle e prendersi una vacanza a Procida, per provare l’ebbrezza di procacciarsi il cibo quasi come un primitivo. Non avrebbe più tempo di scrivere e forse, a pensarci, non sarebbe poi del tutto un male…