Cara ministra Pinotti, la Libia non si aiuta così
La Libia è in piena guerra civile con le forze governative al contrattacco in Cirenaica (e presto anche a Tripoli) per riconquistare il terreno contro gli islamisti, ma l’Italia continua a tentennare invece di prendere posizione. E al legittimo governo libico la ministra alla Difesa Roberta Pinotti fa solo vaghe promesse.
La Libia è in piena guerra civile con le forze governative al contrattacco in Cirenaica (e forse presto anche a Tripoli) per riconquistare il terreno perduto contro gli islamisti, ma l’Italia continua a tentennare invece di prendere posizione. In visita al Cairo il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha incontrato il 1° novembre il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi e il ministro della Difesa, generale Sedky Sobhi. Secondo quanto si legge in una nota diffusa dalla presidenza egiziana, il ministro italiano ha confermato il sostegno dell’Italia alla visione egiziana di lotta al terrorismo e all’estremismo religioso confermando l’interesse «a rafforzare le relazioni bilaterali con l’Egitto in tutti i campi non solo per la sua grande storia ma anche per il suo ruolo in Medio Oriente».
Per quanto riguarda la crisi libica, al Sisi ha chiesto alla comunità internazionale di «provvedere in ogni modo affinché le scelte dei libici vengano rispettate», un chiaro riferimento alla necessità di sostenere il governo riconosciuto dalla comunità internazionale nato dal P laarlamento eletto nelle elezioni del giugno scorso: entrambi (governo e Parlamento) sono stati costretti a rifugiarsi a Tobruk in seguito alla duplice offensiva islamista di quest’estate che ha visto il fronte guidato dai Fratelli Musulmani strappare Tripoli alle milizie di Zintan e i qaedisti di Ansar al-Sharia assumere il controllo di Bengasi e buona parte della Cirenaica.
Parlando con il ministro della Difesa italiano, il presidente egiziano ha aggiunto che «la Comunità internazionale deve dare forza al parlamento eletto allontanando le milizie estremiste e impedendo che trovino l’appoggio di altri Paesi tramite l’invio di armi e apparecchiature». Senza mezze misure al-Sisi ha fatto riferimento ai numerosi velivoli cargo inviati dal Qatar con armi e miliziani (molti reduci dalla Siria) destinati a sostenere le milizie islamiste. Di fatto è la seconda volta in due mesi che al-Sisi chiede aiuto all’Italia per stabilizzare la Libia, prima rivolgendosi al premier Matteo Renzi e ora al ministro Pinotti.
I risultati non sono stati confortanti soprattutto alla richiesta di contribuire al «consolidamento dell’esercito libico». In questo senso è difficile comprendere cosa significhi la disponibilità espressa dal ministro della Difesa italiano a «costruire delle forze armate in grado di tenere la sicurezza in Libia». La sicurezza in Libia non c’è, semmai occorre aiutare le forze armate guidate dal generale Khalifa Haftar, fedele al governo di Abullah al-Thani, a riprendere il controllo del Paese, a strappare la Cirenaica ad Ansar al-Sharia e la Tripolitania alle milizie di Misurata e al fronte islamista ”Alba della Libia” che risponde a un governo illegittimo per il mondo intero e insediato a Tripoli da membri del vecchio parlamento.
L’altra regione libica, il meridionale Fezzan, è sconvolto da lotte tribali e infestato da terroristi e trafficanti di armi, droga ed esseri umani che alimentano la destabilizzazione in atto in tutta l’Africa sub-sahariana. Appare chiaro quindi che le forze regolari libiche hanno bisogno ora di addestramento e supporto per riprendere in mano le redini del Paese. Un appoggio che finora viene fornito solo dall’Egitto. La Pinotti ha ricordato che «avevamo già cominciato a formare le truppe libiche, prima che la situazione degenerasse», ma oggi è più che mai necessario riprendere i programmi di assistenza per impedire agli islamisti di vincere e conquistare l’intero Paese. In questo contesto la Pinotti ha ammesso che «certamente poi ci sarà bisogno di fornire anche delle armi», ma solo «a condizione di avere un interlocutore». L’interlocutore c’è già, è il governo di al-Thani che ha bisogno di armi e aiuti per vincere e diventare l’unico interlocutore.
Insomma, l’impressione è che il governo italiano, fino a pochi giorni fa impegnato a chiedere un «negoziato inclusivo» tra le parti (negoziato sempre respinto peraltro dagli islamisti) voglia attendere di vedere chi vince per decidere il cavallo su cui puntare in Libia. A differenza dell’Egitto, che aiutando i governativi cerca di proteggere le sue frontiere dalle infiltrazioni dei terroristi qaedisti, Roma non sembra volersi sbilanciare e così facendo rischia di giocarsi gli ultimi spiccioli di credibilità nella sua ex colonia. Tra l’altro, mettere a punto un piano d’azione congiunto con il Cairo aiuterebbe anche la cooperazione militare con l’Egitto: un affare di indubbio interesse per noi specie ora che al-Sisi, diffidando degli Stati Uniti, punta su Russia ed Europa per le sue forniture militari saldate con i petrodollari donati dal governo saudita.
Anche la necessità espressa dalla Pinotti di mettere in sicurezza la Libia per fermare i traffici di immigrati clandestini sarebbe compatibile con un intenso supporto militare ai governativi, pretendendo in cambio la possibilità di bloccare con le navi militari i barconi in uscita dal porto di Zuara e dai porticcioli limitrofi riportando indietro gli immigrati. Di fatto, la situazione attuale in Libia presenta molte problematiche, ma anche diverse opportunità che con un po’ di scaltrezza e spirito d’iniziativa potrebbero consentire all’Italia di conseguire immediati vantaggi nel contrasto all’immigrazione acquisendo già oggi la possibilità di ripristina a guerra finita un consistente giro d’affari in Libia e di acquisire un’area di penetrazione politica e commerciale privilegiata in tutto il Nord Africa.
Assurdo non investire (o scommettere) oggi in termini militari e di sicurezza con determinazione sulla Libia, nostro “giardino di casa” dove possiamo (e dovremmo) dire la nostra, mentre continuiamo a buttare quasi un miliardo di euro all’anno e oltre 4 mila soldati in missioni senza senso per i nostri interessi nazionali. In Afghanistan e in Iraq continuiamo, infatti, a pagare costosi oboli all’alleanza con gli Stati Uniti invece di concentrare truppe e risorse finanziarie nelle aree di nostro interesse strategico.