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SPORT E MORALE

Calcioscommesse, il tradimento di un popolo

Non è la prima volta
che il mondo del pallone
ci casca, e non sarà l’ultima.
Però il quadro che esce fuori
da questa ennesima inchiesta
è particolarmente raccapricciante.

Attualità 24_12_2011
CALCIOSCOMMESSE

Ci risiamo un’altra volta: è calcio scommesse. La Procura di Cremona indaga su venti partite di Serie A che sarebbero state truccate. Non solo indizi, ma intercettazioni, testimonianze e confessioni di alcuni protagonisti sembrano confermare che i sospetti degli inquirenti sono fondati: c’erano giocatori che si prestavano, in cambio di soldi, a “pilotare” i risultati. Gente che andava in campo facendo finta di impegnarsi, davanti a decine di migliaia di spettatori pronti a farsi venire l’infarto per i loro beniamini.

Non è la prima volta che il mondo del pallone ci casca, e non sarà l’ultima. Però il quadro che esce fuori da questa ennesima inchiesta è particolarmente raccapricciante. Come si sa, il diavolo si annida nei particolari. E i dettagli sono proprio quelli che in questa brutta storia svelano agli occhi della gente comune un mondo decisamente squallido; un mondo nel quale calciatori ed ex calciatori si presentano agli appuntamenti per aggiustare le partite con la Porsche 911, discutono di pacchetti di decine di migliaia di euro come se si trattasse di soldi del Monopoli, si fanno fotografare dai paparazzi con qualche ragazza copertina. Tutte cose che, di per sé, non sono né reati né peccati. Ma tutte cose che smascherano una concezione della vita malata, vuota, piena di quel nulla che alimenta tutti i vizi peggiori che possono ottundere la coscienza di un uomo.

Uno legge notizie come queste e cerca di capire perché, di spiegare qual è la molla che può spingere dei giovanotti che stanno bene, hanno già molti soldi e molti divertimenti, a infilarsi in un pasticcio più grande delle loro stesse intenzioni. E a guardar bene, le cause ci sono. Innanzitutto, quell’ideuzza troppe volte ripetuta secondo la quale bisogna evitare di “fare del moralismo”. Con questa faccenda di non fare del moralismo, tutto viene trasformato ed edulcorato: le prostitute diventano escort, i truffatori gente scaltra, i ladri persone sveglie, i corruttori persone dotate di senso pratico, i peccatori gente di mondo, e, ovviamente e per coerenza, gli aborti delle Ivg, e l’eutanasia un aiuto a morire con dignità.

Non c’è scampo: se ci sbarazziamo della morale con la scusa di non fare del moralismo, poi dobbiamo tenerci anche le partite truccate e il campionato truffaldino. Perché ci abituiamo a pensare che l’omino il quale, pur con tutti i suoi limiti, si sforza di vivere onestamente, è in fondo uno stupido, un bacchettone, uno superato, un anormale. L’onesto diventa il vero e unico imperdonabile “diverso” della modernità, perché ormai ci siamo giocati la “normalità” del bene, quell’idea forse anche un po’ piccolo borghese, ma anche grandiosamente cristiana, l’idea cioè che il bene va fatto tutti i giorni più volte al giorno evitando innanzitutto il male.

A questa motivazione va poi ad aggiungersi l’idea della vita come supermercato del desiderio: un gigantesco supermercato senza confini, sui cui scaffali puoi trovare donne, motori, invitate tivvù e tanta tanta adrenalina. Stordirsi di emozioni, di rischi, di cose che si devono fare di nascosto, di scommesse appunto, di soldi messi sul tavolo verde per provare la paura di perderli e la speranza di trasformarli in un gruzzolo più grande. Un cocktail micidiale, innaffiato abbondantemente con il selz del guadagno facile, del soldo da acchiappare senza lavorare e senza far fatica, dell’idea che l’unico posto in cui si possa sudare legittimamente sia la sauna di un centro benessere.

Una concezione della vita che certo non viene scoraggiata dalla impressionante diffusione delle scommesse legalizzate. L’altro giorno, mentre sfogliavo la Gazzetta dello Sport per capire meglio i contorni di questa inchiesta, mi sono imbattuto in molte pubblicità delle scommesse legali. Certo: controllate, pulite, regolamentate, legalizzate. Ma sempre di scommesse si tratta.

C’è però un aspetto ulteriore che rende questa vicenda particolarmente odiosa: vendere una partita di calcio significa sporcare qualche cosa di sacro. Non esagero: una competizione sportiva, interpretata vestendo la maglia di una squadra, è la rappresentazione simbolica di una battaglia. Per fortuna non scorre il sangue, ma durante il gioco si ripete in maniera metaforica lo scontro fra due nemici, si rivive la competizione drammatica del conflitto. Ed è precisamente questo significato ulteriore che spiega la passione, e perfino gli eccessi, del tifo calcistico. Un giocatore che vestendo una maglia scende in campo per perdere sta tradendo un intero popolo. E per quanto sia bello, abbronzato e piaccia alle donne, non dovrebbe più avere il coraggio di guardarsi allo specchio.

Per fortuna, come capita spesso nella vita, non tutto in questa storia manda un odore nauseabondo. C’è anche chi di quel mondo fatto di soldi a di truffe non vuole saperne. Simone Farina, 29 anni, terzino del Gubbio, una moglie e due figli, è stato contattato per vendere una partita della sua squadra, perdendola. Gli promisero più soldi di quelli che guadagna in un anno. Simone ha rifiutato e ha raccontato tutto al suo direttore sportivo, Stefano Gianmarioli. Il quale ha commentato così la condotta del suo giocatore: “Non facciamolo passare per un eroe. Ha solo fatto il suo dovere, come ogni cittadino per bene dovrebbe fare”. Parole sante.