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INCHIESTA

Bosnia, la riserva europea del Califfato islamico

Kosovo e Bosnia si aggiudicano i primi due posti per reclutamento mondiale di foreign fighters rispetto al numero di abitanti, contando 232 e 330 combattenti all'estero. I giovani sono la categoria più coinvolta e a rischio. A creare terreno fertile per il reclutamento jihadista sono, in particolare, la crisi economica, la disoccupazione, la corruzione.

Esteri 12_06_2015
Combattenti dell'Isis

Proprio poche ore prima dell'arrivo del Papa a Sarajevo, puntuale come un orologio e nel momento più appropriato secondo l'agenda dei media mondiali, Al Hayat Media Center (principale mezzo per le comunicazioni e i nuovi media di Isis) pubblica un video lungo circa 20 minuti dal titolo “L'onore è nella jihad: messaggio al popolo dei Balcani”. Una voce narrante che fa da sottofondo a immagini della guerra in Bosnia, si alterna alle immagini e alle parole di miliziani bosniaci, albanesi e kosovari che annunciano che vendicheranno «le umiliazioni subite dai musulmani in Kosovo, in Albania e in Macedonia» e che «combatteranno la sottomissione cristiana». Il filmato non è privo di minacce cruente di cui l'Isis ha fatto il suo cavallo di battaglia: «Dovrete aver paura di camminare per le strade, di stare nei vostri uffici, di dormire nelle vostre case. Con il permesso di Allah, vi strangoleremo», e ancora: «Vi uccideremo, verremo con le cinture esplosive, e questo avverrà molto presto».

I media internazionali si scatenano, non parlano d'altro. Mentre in Bosnia viene diffusa la notizia, ma la percezione è diversa. Ci spiega perché Denis Hadzovic, direttore del Centro Studi sulla Sicurezza di Sarajevo: «È da parecchio tempo che abbiamo a che fare con questi messaggi che incitano la gente a entrare a far parte dell'esercito dello Stato Islamico. Per cui non credo che questo filmato, nello specifico, avrà un grande effetto sul reclutamento di jihadisti nei Balcani.  Quello che più preoccupa è che l'Isis sta migliorando rapidamente la sua capacità di diffondere informazioni sul web e che le autorità competenti non sono in grado di contenerla». E non sono solo i messaggi di Isis che le istituzioni qui non sanno fronteggiare adeguatamente. In Italia se ne è parlato poco e in maniera confusa, ma nelle ultime settimane i Balcani hanno subito un'escalation di tensioni e di violenza: una serie di attacchi hanno messo allo scoperto la loro fragilità e l'incapacità di gestire da soli la minaccia terroristica che li riguarda. Il 21 aprile, 40 persone armate, organizzate in un commando appartenente a ciò che rimane dell'Uck (esercito di liberazione operante in Kosovo e in Macedonia, mirante alla costruzione della Grande Albania) hanno occupato per un paio d'ore la sede della polizia di Go?ince, nel nord della Macedonia. L'hanno poi abbandonata e si sono dileguati prima dell'arrivo dei rinforzi di Skopje, che comunque non si è dimostrata efficiente e solerte nell'intervento. 

Pochi giorni dopo, il 28 aprile, un giovane wahabita ha attaccato l'ufficio di polizia di Zvornik (Repubblica Srpska di Bosnia Erzegovina); bilancio dell'attacco la morte dell'attentatore e di un agente. Di nuovo il 9 maggio, in Macedonia al confine con la Serbia, la cittadina di Kumanovo è stata attaccata da 50 membri dell'Uck che hanno ucciso 8 poliziotti e ne hanno feriti 37. Stavolta sono rimasti coinvolti anche dei civili, in numero tuttora imprecisato. Poi, il 5 giugno, il video messaggio che minaccia tutti gli infedeli balcanici. Dzevad Galijasevic, noto analista musulmano bosniaco, e Predrag Ceranic, professore dell'università di Banja Luka e capo dei servizi d'intelligence bosniaci durante la guerra, ci spiegano che tra le istituzioni e le forze antiterrorismo dell'area non c'è una collaborazione sufficiente a contrastare il fenomeno: lo scambio di informazioni tra le agenzie di sicurezza balcaniche spesso non avviene o, se avviene, risulta inefficace perché ci sono ancora troppe frizioni tra la polizia serba e quella bosniaca. Per questo è necessario il coinvolgimento della comunità internazionale. Secondo Esad Hecimovic, editor della televisione Obn, uno dei principali canali televisivi bosniaci ed esperto di terrorismo, «lo Stato funziona e la polizia fa il suo dovere. Non sono state scoperte reti terroristiche vere e proprie, solo episodi e individui isolati». Molti media musulmani, come pure il leader Bakir Izetbegovic, denunciano l'attenzione serba al fenomeno jihadista come istigazione a una nuova pulizia etnica.

«Tutto, tutto in questo Paese viene strumentalizzato politicamente, e l'argomento jihad è particolarmente suscettibile di diverse interpretazioni», ci riferisce l'ambasciatore italiano in Bosnia, Ruggero Corrias. «I bosniaci tendono a sminuire il fenomeno, mentre i serbi a ingigantirlo. Il problema esiste in tutta Europa e non solo. Non possiamo pretendere che non esista in Paesi come questi, in cui le frontiere sono porose e gli equilibri etnici, religiosi e politici  sono fragili. Ma dobbiamo ricordare che la maggioranza dei musulmani qui sono moderati. Per esempio in Bosnia su 2 milioni di persone di fede islamica, gli ultraconservatori delle comunità wahabite sono 3mila. Non si può e non si deve gettare l'ombra del sospetto su tutti. Noi stiamo lavorando bene, siamo coordinatori del programma anticriminalità (nel quale rientra anche il terrorismo) su cui sono stati investiti 5milioni di euro». Insomma, la situazione sarebbe sotto controllo, almeno qui.

Però, secondo i dati diffusi dal Centro Kosovaro per gli Studi sulla Sicurezza (Kcss), Kosovo e Bosnia si aggiudicano i primi due posti per reclutamento mondiale di foreign fighters rispetto al numero di abitanti , contando 232 e 330 combattenti all'estero. I giovani sono la categoria più coinvolta e a rischio. Il report evidenzia che a creare terreno fertile per il reclutamento jihadista sono, in particolare, la crisi economica, la disoccupazione, la corruzione, le ineguaglianze e il dislivello tra le disponibilità della classe dirigente e la maggioranza della popolazione, come pure l'inadeguata erogazione di servizi pubblici. Concorda in pieno l'ambasciatore Corrias, secondo il quale lo sviluppo economico e la realizzazione delle riforme sono le armi con cui mettere in sicurezza i Balcani.

Per questo il Papa, se non avesse deciso di parlare a braccio consegnando ai vescovi il discorso che aveva preparato per l'incontro con i giovani del 6 giugno, avrebbe detto: «Insieme con i problemi economici, con la difficoltà di trovare lavoro e la conseguente incertezza per il futuro, si avverte la crisi dei valori morali e lo smarrimento del senso della vita. Di fronte a questa situazione critica, qualcuno potrebbe cedere alla tentazione della fuga, dell’evasione, chiudendosi in un atteggiamento di isolamento egoista, rifugiandosi nell’alcol, nella droga, nelle ideologie che predicano l’odio e la violenza.(...) Vi incoraggio a non lasciarvi abbattere dalle difficoltà, ma a far emergere senza paura la forza che viene dal vostro essere persone e cristiani, dal vostro essere semi di una società più giusta, fraterna, accogliente e pacifica».