Battaglia a Falluja, il suicidio di Al Qaeda
Le milizie jihadiste che combattono in Siria iniziano a massacrarsi fra loro ed esportano la loro insurrezione anche a Falluja, in Iraq. Ma la popolazione locale non li accoglie bene, mentre il governo di Baghdad prepara il contrattacco.
Siria e Iraq ormai costituiscono un fronte unico sul quale combattono, in una sorta di tutti contro tutti, forze regolari ma soprattutto milizie irregolari. Il confine tra i due Paesi corre lungo centinaia di chilometri di deserto impossibili da controllare. Tra il 2004 e il 2010 dal territorio siriano i qaedisti si infiltravano in Iraq per combattere gli statunitensi mentre il regime di Bashar Assad ne tollerava la presenza solo perché combattevano il nemico statunitense. Dal 2011, con il ritiro delle truppe americane dall’Iraq e l’avvio della rivolta siriana la situazione si è rovesciata. I qaedisti attivi in Iraq costituirono la base di molti movimenti islamisti che combattono contro le forze di Assad creando così i presupposti per la nascita di una forza di al-Qaeda che opera indistintamente nell’Iraq centro occidentale e in Siria: lo Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS). Una regione che, sui due lati del confine, è abitata prevalentemente dalle stesse tribù sunnite solidali nel combattere il governo di Baghdad retto dallo sciita Nouri al Maliki come quello siriano dell’alawita (sciita) Bashar Assad.
Sarebbe facile interpretare la recente offensiva qaedista nella provincia irachena di al-Anbar, che ha visto centinaia di miliziani conquistare Falluja e buona parte di Ramadi, rinnovando l’incubo delle battaglie urbane che i marines statunitensi dovettero affrontare nel 2004, come una nuova battaglia del lungo conflitto tra sciiti e sunniti. La situazione invece pare molto più complessa. Certo il governo iracheno ha compiuto tutti gli errori possibili per favorire la ripresa della rivolta sunnita sedata nel 2008 dal generale David Petraeus che convinse le tribù di al-Anbar a combattere al-Qaeda in cambio di un riconoscimento da parte del governo centrale che Baghdad non ha mai rispettato. Anzi, il governo di al-Maliki ha accusato di terrorismo e poi condannato a morte il vice presidente sunnita Tariq al-Hasheimi esacerbando le tensioni settarie che hanno favorito il ritorno in forze di al-Qaeda nelle province nord occidentali dove il terrorismo colpisce ogni mese con decine di attentati, in buona parte suicidi.
Ciò nonostante l’arrivo in massa di reparti dell’ISIS nelle città di Falluja e Ramadi non è stato accolto con favore da molte tribù che, forse memori della durezza della sharia applicata dai barbuti seguaci di Ayman al-Zawahiri negli anni della presenza statunitense in Iraq, hanno mobilitato le milizie locali per liberare le loro città. Forze irregolari che difficilmente raggiungono i 9mila combattenti, come sostiene il governo di Baghdad, e che soprattutto non combattono certo per aiutare al-Maliki ma semmai per ripristinare la leadership tribale sconfessando il tentativo di “qaedizzare” tutta la regione iracheno-siriana sui due lati della frontiera. Se la situazione in Iraq può apparire caotica, in Siria lo è forse ancor di più. Da settimane gli scontri principali avvengono tra le diverse fazioni ribelli e soprattutto tra l’ISIS e i gruppi Fronte Islamico, Fronte Rivoluzionario Siriano e l'Esercito dei Mujahideen che venerdì scorso hanno dichiarato una “seconda rivolta" contro i qaedisti. Da due giorni però la situazione è ulteriormente degenerata. Anche il Fronte al-Nusrah, che aveva aderito ad al-Qaeda, ha attaccato l’ISIS le cui forze hanno subito oltre un centinaio di perdite e sembrano in rotta ovunque : hanno ceduto a Idlib, ad Aleppo, a Raqqah (dove sono stati liberati 50 ostaggi) e pare abbiano perso anche il controllo di Dayr az Zor, sul confine iracheno.
Per questo l’offensiva in Iraq pone seri interrogativi. Occorre chiedersi se si tratti di una nuova prova di forza dei qaedisti che tentano di sollevare al loro fianco la popolazione di al-Anbar o se si tratti invece di un gesto disperato da parte di miliziani cacciati dalla Siria e che cercano il martirio in uno scontro campale a Ramadi e Falluja dove, come insegnano le due battaglie combattute dieci anni or sono dai marines, le forze regolari irachene rischiano di provocare un bagno di sangue tra i civili. Nonostante la cautela che caratterizza l’avanzata delle forze di Baghdad solo poche migliaia di civili hanno lasciato Falluja. Molti sono rimasti nelle loro case o volontariamente o perché utilizzati come scudi umani dai qaedisti che puntano sul bagno di sangue per accusare di eccidio le forze sciite e indurre alla rivolta i sunniti.
In questo contesto il primo ministro Nouri al Maliki ha rivolto un appello poco diplomatico agli abitanti di Falluja affinché caccino i guerriglieri dalla città se vogliono essere risparmiati dall'offensiva in preparazione, mentre a Ramadi i piccoli aerei Cessna dell’aviazione irachena hanno lanciato missili Hellfire sui ribelli uccidendone 25 insieme ad almeno 4 civili. Del resto l’Iraq è in prima linea anche nel conflitto siriano. Se le tribù sunnite offrono appoggi e combattenti ai ribelli, Baghdad sostiene blandamente il regime di Assad lasciando passare carichi di armi e carburante provenienti dall’Iran e miliziani sciiti reclutati nel Sud, tra Bassora, Kerbala e Nassiryah. Non c’è da stupirsi che in un simile caos gli Stati Uniti puntino a evitare ogni coinvolgimento pur assicurando sostegno militare a Baghdad. Il portavoce della Casa Bianca Jay Carney ha precisato che le forze di sicurezza irachene riceveranno al più presto nuovi missili aria-terra Hellfire e una sessantina di piccoli droni da ricognizione Scan Eagle, ma non vi saranno truppe statunitensi a combattere sul terreno al-Qaeda. Nonostante il ritiro, a fine 2011, gli Stati Uniti restano i principali partner militari dell’Iraq anche se sono in deciso aumento le commesse di armi russe.