Armenia, genocidio e martirio visti dal vivo
Un nuovo libro sul genocidio armeno, Haigaz chiamava: “Mikael… Mikael…” è una delle più sconvolgenti testimonianze dirette del genocidio armeno, una testimonianza di persecuzione e di martirio. Michel Mikaelian, scampato alle marce della morte nell’Anatolia orientale, scrisse di getto le sue memorie. Per non dimenticare.
Dietro a un titolo difficile da ricordare Haigaz chiamava: “Mikael… Mikael…” (Libriliberi, Firenze 2015) si cela una delle più sconvolgenti testimonianze dirette del genocidio armeno, una testimonianza di persecuzione e di martirio. Michel Mikaelian, scampato alle marce della morte nell’Anatolia orientale, scrisse di getto le sue memorie, per documentare le atrocità che lui, i suoi familiari e il suo popolo avevano appena subito. Lo ha dovuto scrivere due volte, a dire il vero, perché la prima stesura era andata perduta quando erano riprese le persecuzioni degli armeni, sotto Ataturk, nella Turchia repubblicana.
Le testimonianze sul genocidio armeno sono molto numerose e vi si leggono scenari ormai noti a molti, in Italia merito soprattutto di una scrittrice quale Antonia Arslan, che ha dedicato alla tragedia il celebre La Masseria delle Allodole. La testimonianza di Mikaelian, in presa diretta, ci mostra però sprazzi di vita vissuta, orrori visti dal vivo, aspetti inediti che solo un acuto osservatore (i cui sensi sono acutizzati proprio dal pericolo imminente) della realtà dell’epoca può rilevare e far rilevare. “Tu sai bene che gli armeni costituiscono una minoranza cristiana in questo paese, governato dai musulmani da secoli – dice l’anziano del villaggio al giovane autore delle memorie – la loro intelligenza, la loro riuscita, il loro successo nel campo delle scienze, delle arti e delle professioni, aumentano l’odio o lo spirito d’invidia del popolo turco. Tu sai che solo i funzionari del governo sanno leggere e scrivere, il resto della popolazione è analfabeta. Questo popolo non conosce altro che malvagità, crudeltà, assassinio. Lo sai che, mentre passeggi al mercato, i turchi controllano il modo in cui cammini, guardano se porti il fez dritto o inclinato di lato, studiano il tono della tua conversazione affinché al momento opportuno, ricordandosi di questi dettagli, possano commettere delle atrocità”. Il genocidio sarebbe iniziato di lì a pochi giorni. I sintomi, inizialmente, erano molto pochi. “Quei cattivi sono stati molto gentili con lui”, dice Mikaelian alla madre, riguardo a suo padre che veniva arrestato in quel giorno, senza alcuna accusa specifica. E’ la dissimulazione all’opera: “Quando i turchi progettano qualcosa di malvagio, non si mettono mai in collera e sanno dissimulare ipocritamente le loro intenzioni. Con molta diplomazia ti attirano nella loro trappola e solo allora tirano fuori gli artigli e i denti acuminati”.
La sorpresa, lo shock, derivano dal fatto che la violenza arriva dalle autorità, dalla polizia che avrebbe dovuto proteggere i suoi cittadini, da funzionari e notabili locali che vengono serviti e riveriti dalle vittime sin all’ultimo giorno prima dell’inizio della persecuzione. E’ lo Stato genocida, che da protettore si fa assassino seriale. Dopo la “grande retata” in cui tutti gli uomini della cittadina di Arabkir vengono arrestati e assassinati, tocca a donne e bambini (fra cui Mikaelian, allora quattordicenne) essere deportati. Anche qui la dissimulazione gioca un ruolo importantissimo: viene detto loro di mettersi in marcia, portandosi dietro tutto l’indispensabile, per essere trasferiti nella vicina Malatia, per il loro bene. Quotidianamente sono costretti a versare un pedaggio, con i pochi soldi rimasti, per essere protetti dai curdi. Ma ogni notte, regolarmente, qualche ragazza sparisce…
Alle vittime a cui si prospetta la marcia della morte, viene data un’ultima opportunità: convertirsi o perire. Solo la conversione all’islam, assicurano le autorità, permette di conservare la propria casa: “I cittadini non musulmani dell’Impero Ottomano che vorranno ben convertisti alla religione musulmana, possono restare nelle città e nei villaggi dove abitano. Coloro che si oppongono in coscienza a questa proposta, saranno espulsi dalle loro città e villaggi e diretti verso regioni lontane e sconosciute”. La madre di Michel sceglie deliberatamente il martirio, assieme a tutto quel che resta della famiglia ormai priva di padre: “Figli miei, io non voglio farmi musulmana. Non rinnegherò mai il mio Cristo, piuttosto condurrò i miei figli con me verso la morte. Nessuno di noi, mai, sarà musulmano. Preferisco morire fra mille sofferenze sulle sabbie infuocate del deserto. Non posso tradire il mio Dio, sarebbe un’offesa imperdonabile. Il mio cuore, l’organo più sacro del corpo, conserva intatta la coscienza dentro di me, fin da quando ero bambina. Ho vissuto in armonia con la mia coscienza fino a questo triste giorno, e intendo continuare così. Ho adorato Gesù per 33 anni, l’ho custodito con tenerezza e mai lo allontanerò da me per la vita effimera di questo mondo”. Arussiag, la madre di Michel, morirà da martire un mese dopo, nel deserto dell’Anatolia orientale.
E’ l’incubo delle marce della morte, con “destinazione il nulla” a costituire il nerbo della narrazione di questa testimonianza. Impressiona la disumanità con cui i dannati alla morte sono trattati non solo dai loro aguzzini, ma anche dalla popolazione che incontrano. Come il giovane curdo che attira con un inganno il protagonista, ormai ridotto a pelle e ossa, e invece lo lascia mezzo morto per strada dopo una scarica di colpi di pietra. O i briganti curdi che spogliano e uccidono sistematicamente le loro vittime indifese. O i contadini che fingono di offrire accoglienza alle famiglie dei deportati, prendono loro i soldi con l’inganno e li fanno ammazzare. Sono pochi i momenti di umanità incontrati nel deserto roccioso dell’Anatolia orientale. “Per gli abitanti di quei luoghi primitivi, analfabeti, eravamo dei vagabondi erranti e miserabili, indegni di vivere. Ci consideravano puniti dalla maledizione di Allah, il loro Dio. Accorrevano numerosi sulla strada, per guardarci da vicino. ‘Sono ghiavur’ dicevano tra di loro, quando arrivavano presso di noi. Per loro tutti i cristiani erano ‘infedeli’, per il solo fatto di non essere musulmani. ‘Ghiavur’ era un termine dei più comuni che i turchi usavano per ingiuriare gli armeni. L’epiteto veniva molto probabilmente dalle autorità religiose turche, che avevano diffuso questa parola dispregiativa all’indirizzo degli armeni e delle popolazioni non musulmane in genere”.
Dimenticare un genocidio comporta un effetto collaterale pericoloso: non capendo la lezione, si può anche ripetere. E’ ciò che sottolinea David Meghnagi, psicologo ebreo e studioso della Shoah: il genocidio degli ebrei, condotto con metodicità ancora maggiore, avvenne appena vent’anni dopo la fine del genocidio degli armeni. “Chi ricorda gli armeni, adesso?” chiedeva ironicamente Hitler, mentre si apprestava a cancellare un altro popolo. Il suo regime nazista aveva censurato il romanzo I 40 giorni del Moussa Dagh, memoria dell'eroica resistenza di un gruppo armato di armeni che si salvò. Gli ebrei lo lessero molto bene, invece, e in Palestina iniziarono a preparare la loro autodifesa, prima contro i pogrom arabi, poi in vista di un arrivo dei tedeschi. Quanto all'ex Impero Ottomano, “Con l’involuzione autoritaria e repressiva del regime di Erdogan – scrive il curatore del volume Alessandro Litta Modignani (nipote di una famiglia armena fuggita al secondo genocidio) nella sua prefazione – la Turchia sembra allontanarsi a lunghi passi dai canoni europei della democrazia e dello stato di diritto. Nel sistema egemonizzato dall’Akp sembrano saldarsi le due subculture che per decenni hanno caratterizzato quella terra di frontiera: il nazionalismo laico e il fondamentalismo religioso”.
La Turchia laica e nazionalista ha sempre vietato di parlare del genocidio (ammette "massacri" e un numero di vittime non superiore ai 300mila, su 1 milione e mezzo di morti effettivi) e incarcera chi prova a farlo, quella islamica fa altrettanto e sta, come minimo, chiudendo un occhio al genocidio che avviene alle porte di casa. Un genocidio in cui si rivedono le stesse scene descritte con particolari vividi da Mikaelian: i non musulmani considerati come “indegni di vivere”, gli ultimatum “convertirsi o morire”, i corpi lasciati per strada a imputridire, le teste tagliate, allineate, esposte in pubblico, le vittime sgozzate col coltello per risparmiare proiettili e rispettare una macabra ritualità religiosa, le lunghe marce della morte nel deserto. E’ quel che sta facendo l’Isis, anche con armi turche, all’alba del XXI Secolo.