Angelo Rizzoli, una storia italiana
Malato di sclerosi multipla venne incarcerato per più di 1 anno, processato e indagato per 25, poi assolto. E' morto nei giorni scorsi. Coinvolto, suo malgrado, in grandi trame che hanno segnato la storia dell'Italia contemporanea.
In un'intervista del febbraio 2010, rilasciata a Stefano Lorenzetto, de Il Giornale, Angelo Rizzoli dichiarò: «Loro, i cavalieri bianchi senza macchia, sapevano bene che soffro di sclerosi multipla dal 1963. E che cosa può fare un malato con tre ordini di cattura sul capo, spogliato di tutto - reputazione, affetti, aziende, patrimonio, passaporto - e privato della libertà per più di 13 mesi, di cui tre passati in cella d’isolamento, neanche un giorno d’infermeria, né visite mediche, né cure specialistiche, sbattuto da un carcere all’altro, prima San Vittore, poi Como, poi Lodi, poi Bergamo, infine Rebibbia, allo scopo di fiaccarne il fisico e lo spirito? Può solo morire».
Così è stato. Angelo Rizzoli è morto a 70 anni. Era ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma, agli arresti domiciliari, concessi dal gip del Tribunale di Roma, dopo l’arresto del 14 febbraio di quest’anno per l’accusa - ancora da chiarire - di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale pari a 30 milioni di euro, causata dal fallimento di quattro società controllate. La moglie, la parlamentare Melania De Nichilo, ha dichiarato: «Questa ennesima vicenda giudiziaria, ha spezzato il cuore a mio marito». Dell’accusa di bancarotta del Corriere della Sera, formulata contro di lui per aver "occultato, dissipato o distratto" oltre 85 miliardi di lire, che gli costò i 13 mesi di prigione - fu arrestato nel 1983 - fu dichiarato totalmente estraneo solo 25 anni dopo, nel 2009, con la sentenza definitiva sul crac del Banco Ambrosiano. Nel 2010, Rizzoli avanzò la richiesta di risarcimento danni per l'ingiusta carcerazione patita, ma nel gennaio 2012 il Tribunale di Milano respinse l'istanza.
Quello del modo disumano con il quale viene amministrata la giustizia nel nostro paese, è solo il primo degli aspetti che riguarda la vita di Angelo Rizzoli, costretto ad una detenzione ingiusta a causa di provvedimenti che dopo un quarto secolo si sono rilevati ingiusti.
L’altro aspetto riguarda la sua appartenenza a quella parte della massoneria - la Loggia P2 di Licio Gelli - che tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80, si pose, tra gli altri, l’obiettivo della scalata al Corriere della Sera. I maggiori protagonisti di quella vicenda - Bruno Tassan Din, l’amministratore delegato del quotidiano milanese, Franco Di Bella, il direttore, Umberto Ortolani, il finanziere, Roberto Calvi, il Presidente del Banco Ambrosiano, tutti iscritti alla loggia P2, sono morti. Gelli, che ha 94 anni, vive ancora nella sua villa vicino Arezzo, ora sequestrata per problemi di carattere fiscale - sembra sia debitore, nei confronti dello Stato, di 17 milioni di euro. Di tanto in tanto, Belfagor - così iniziarono a chiamarlo dopo la scoperta delle liste della P2 a Castiglion Fibocchi, nel 1981 - esterna ancora suggestioni. Come quella diffusa dopo la morte di Giulio Andreotti: «Ha fatto il suo dovere - disse Gelli - ha usato i segreti per dare il benessere al popolo. I segreti li aveva, e se li è portati con sé. Chi è un uomo se li porta dietro...». Anche Gelli, i suoi segreti se li porterà con sé, insieme a quelli di tutti coloro che da politici, uomini d’affari, banchieri, giornalisti, imprenditori, che negli anni d’oro - ed anche nei decenni successivi - al “Venerabile” si affidarono, per ricavarne “consigli” e protezione. La dicono lunga, a questo proposito, proprio le parole di Angelo Rizzoli del 1981, quando si scoprì la sua appartenenza in quelle Liste: «Io ero una delle migliaia di persone che frequentavano Gelli. C’erano primi ministri, ministri, segretari di partito, grandi industriali, famosi finanzieri. Tutti lo riverivano. Nessuno di loro mostrava di dubitare della sua onestà? Perché avrei dovuto farlo io?».
Aveva ragione, Angelo Rizzoli. Tutti, a quei tempi, s’inchinavano a Gelli e sgomitavano per avere un posto nelle sue liste. Molti lo fecero con superficialità e solo per carrierismo. Altri, con disegni, più o meno reconditi, di “appartenenza” a cerchie selezionate di chi poteva “contare”. Perfino gli apparati dello Stato, a cominciare dai capi dei servizi segreti, molti magistrati, segretari di partito e parlamentari, illustri rappresentanti delle forze armate, videro in Gelli e nelle sue trame - credibili o solo millantate - un'ancora di salvataggio per salvaguardare ed estendere la loro ansia di potere e di denaro. Anche Gelli, consapevolmente o meno - poco importa - si fece usare, in più di una circostanza. L’esempio della vicenda del Corriere della Sera, è illuminante da questo punto di vista: la scalata al più grande giornale italiano poteva ragionevolmente essere un obiettivo di chi, anche dopo l’assassinio di Aldo Moro (che forse fu l’unico a comprendere fino in fondo quel che si consumò in quegli anni, di qui la ragione della sua agghiacciante e misteriosa eliminazione) perseguiva il compromesso storico tra democristiani e comunisti, per arginare la figura emergente di Bettino Craxi. Fu proprio il leader socialista, solo due anni dopo la scoperta delle liste della P2, a sbaragliare quel disegno e a divenire Presidente del Consiglio.
Anni intricati di vicende, quelli. All’“Italia della P2” fu attribuito tutto: dalla strage di Piazza Fontana del 1969 a quella dell’Italicus del 1974, dall’omicidio del giudice Vittorio Occorsio del 1976 a quello dell’avvocato Giorgio Ambrosoli del 1979, dal “suicidio” di Roberto Calvi del 1982 agli assassinii del giornalista Mino Pecorelli del 1979 e del banchiere Michele Sindona del 1986, dal caso “Cirillo”, il consigliere democristiano della regione Campania, sequestrato dalle Brigate Rosse nel 1981 alla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 1980, fino al sequestro di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori del 1983.
I perdenti, si sa, vengono incolpati di tutto. I vincenti, invece, stanno lì, sulla sponda del fiume. Si è fatto credere che quella di Gelli sia stata la parte deviata della massoneria, mentre le “altre” massonerie, quelle vincenti, siano tutte rose e fiori. È come la storia della mafia. Della mafia perdente e di quella vincente. La prima è responsabile di tutte le efferatezze e di tutti i crimini. La seconda è quella che spesso non si vede, sfugge a qualsiasi indagine e gode quasi dell’immunità. Anche questa è storia italiana.