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MA QUALI MIGRANTI?

Anche Ulisse e Enea stravolti per il mito immigrazionista

Per imporre l'immigrazionismo serve anche la mitologia. Ma Ulisse e Enea non sono proprio l'esempio giusto di migranti ante litteram. Anzi, basta leggere Eneide e Odissea per smascherare il grande inganno...

Editoriali 27_02_2019
Ulisse e Calipso

Per imporre un’ideologia sono utili tutti i mezzi: anche costruirsi i propri riferimenti ideologici attingendo alla mitologia in modo da fissare nel dna atropologico di un popolo le ragioni delle proprie istanze. Accade così che per affermare il principio dell’immigrazionismo forzato si cerchi in tutti i modi di trovare gli appigli in un passato che però non può essere adattato alla nostra realtà. Per giustificare la necessità di un’accoglienza indiscriminata dei migranti si gioca la carta della mitologia, stropicciando a proprio uso e consumo i grandi miti che hanno forgiato la civiltà occidentale.

Ne sono una prova evidente i tentativi di un certo milieu intellettuale che si serve anche del teatro e della letteratura per portare avanti l’ineluttabile necessità dell’accoglienza a tutti i costi. Dimentichi che gli antichi, più che di accoglienza, parlavano di ospitalità, il che segna due concetti diametralmente opposti.

Il primo ad essere scomodato è stato Enea, il pio progenitore della stirpe da cui poi nacque la civiltà romana. Si è cercato di vedere in un passaggio dell’Eneide un riferimento all’emigrazione odierna. E si è citato un po’ a caso un passo tratto dal primo libro del capolavoro virgiliano: “In pochi a nuoto arrivammo qui sulle vostre spiagge. Ma che razza di uomini è questa? Quale patria permette un costume così barbaro, che ci nega perfino l’ospitalità della sabbia”. (Libro I 538-543)

L’equazione è stata semplice: anche Enea si stupiva della mancata accoglienza, ergo, accogliere il migrante è un comandamento che la stessa mitologia impone.

Niente di più falso e basterebbe andare a riprendersi quel passo per capire che le cose non stanno affatto così. Anzitutto perché Enea scappava da una guerra e dalla distruzione della sua città, Troia, non proprio come il 95% di quelli che arrivano in Italia per cause eminentemente economiche. Potremmo definirlo un profugo, ma non certo un migrante. Tanto più che in quel passo Enea e i suoi compagni fecero naufragio sulle coste della Fenicia, l'odierna Libia, da cui partono oggi i barconi, non in Italia.

A parlare in quel passo però non era però Enea, ma Ilioneo, il più autorevole dei Teucri, il quale si lamentava con Didone (anche lei profuga, ma è un'altra storia) perché non erano stati accolti a seguito del naufragio. 

Basta leggere quello che succede dopo per comprendere il grande inganno: Didone si scusa e si giustifica che ci sono delle leggi (ma guarda un po'...) fatte apposta per tutelare la popolazione fenicia dai malintenzionati che arrivavano sulle coste. Chiarito l’equivoco, i Teucri vengono accolti con tutti gli onori tanto che la regina fenicia si prende anche una bella cotta per Enea. 

Ma Enea ha un compito: è profugo a Cartagine, ma è diretto in Italia, dove lo chiama il Fato, per fondare una nuova città (tra l'altro combattendo proprio con le popolazioni preesistenti, ma guarda un po'). 

Infatti, quando Enea decide di lasciare Cartagine dopo essersi per bene spupazzato Didone, lo fa perché ha un compito: fondare una nuova civiltà. Non rimane migrante a Cartagine a chiedere il sussidio alla Regina, ma va alla conquista di una nuova terra. Conquista, sì, dato che il concetto di emigrazione nell’antica Grecia non esisteva se non in chiave – diremmo oggi – espansionistica, cioè per occupare nuovi territori e se il caso scalzare a suon di armi le popolazioni preesistenti.

La storia è nota: Didone la prende male tanto che minaccia vendetta (exoriare ultor ex ossibus nostris), che poi saranno molti anni dopo Annibale e i suoi elefanti. Chiaro? Era un naufragio, rispetto al quale si deve sempre prestare soccorso, cosa tra l'altro sempre fatta in Italia. Non era su un taxi del mare organizzato dalla mafia nigeriana per la sostituzione etnica.

Ma che non basti leggere i miti del passato per appropiarsene è dimostrato anche dalla pretesa ora di spacciare per migrante persino Ulisse. Come? In circolazione ci sono due spettacoli teatrali in cui si presenta la figura dell’uomo dal multiforme ingegno proprio come un migrante bisognoso di accoglienza in terra straniera. E anche qui torniamo alla linguistica: sarebbe meglio parlare di ospitalità, dato che in tutte le sue tappe, Odisseo non dimentica mai la sua principale chiamata, quella del ritorno, il nostos, tanto che l’odissea è da sempre letta come il poema del ritorno.

Invece, complice anche un po’ di ignoranza tra il pubblico che mediamente assiste a certi spettacoli, c’è il rischio di ascrivere anche il re di Itaca tra i richiedenti asilo della Diciotti. E’ ad esempio l’operazione che stanno facendo gli attori Marco Paolini e Giuseppe Cederna con due spettacoli ad hoc che già dal titolo richiamano il concetto, per la verità facilmente smontabile, dell’Ulisse migrante: Nel tempo degli Dei, il calzolaio di Ulisse, del primo e Odisseo il migrante del secondo. La cosa non è sfuggita a Libero che nella pagina di cultura di ieri ha titolato I progressisti taroccano anche l’epica. E a ragione dato che di Ulisse si può dire di tutto, tranne che volesse lasciare la propria patria per cercar fortuna in un’altra. Per il semplice fatto che tutto, nella sua interminabile Odissea, è volto proprio al ritorno nella sua amata Itaca, dove la moglie Penelope lo aspetta ancora tra tormenti e malinconie.

Una prova? Basta leggere il libro V dove Omero ci tratteggia il possente figlio di Laerte in una condizione struggente: seduto sulla spiaggia a piangere come un coniglio bagnato e desiderare il ritorno, lasciando così le amorevoli attenzioni della ninfa Calipso, anch’essa cotta dell’eroe reduce dalla guerra di Troia.

Insomma, la si rigiri come si vuole, ma Ulisse a tutto pensava tranne che a stabilirsi armi e bagagli da Calipso, la quale, nonostante la bellezza e la condizione di divinità che le consentiva di non conoscere neppure gli acciacchi della vecchiaia, nulla potè di fronte a Penelope. Infatti, Odisseo è sicuro e risoluto in questo: «Desidero e voglio ogni giorno giungere a casa e vedere il dì del ritorno».

Insomma, avrà anche sbandato un po’ per Calipso, lo possiamo comprendere di fronte a tanta bellezza, però ha sempre avuto chiaro in mente quale era il suo compito: tornare a casa, dove il suo d’affare era quello di scacciare i Proci che insidiavano il suo trono. Infatti, giustamente nel suo articolo, Giovanni Sallusti, chiama Ulisse “il primo dei sovranisti” dato che per cacciare gli usurpatori non lesinò persino la violenza, tra l’altro con l’aiuto del figlio Telemaco da poco riabbracciato.

Ulisse ed Enea, due naufraghi per desiderio di una patria in cui comandare e non in cui farsi accogliere. Basterebbe mettersi un po’ a studiare per evitare certi scivoloni.