L'EDITORIALE
Amanda Knox, i media e il pregiudizio anti-cattolico
Amanda fu condannata in primo grado perché l'Italia è cattolica. E il pubblico ministero pure. La straordinaria tesi è sostenuta da uno scrittore americano e da un giornale inglese, che oltre al pregiudizio dimostrano anche un certo razzismo.
Editoriali
05_10_2011
Non poteva mancare. Nell’orgia mediatica che si è consumata intorno al processo per l’uccisione di Meredith Kercher, non poteva mancare qualcuno che tirasse in ballo la Chiesa. “La natura delle accuse contro Amanda Knox erano quasi esclusivamente di natura sessuale. L’Italia cattolica condanna lo stile di vita e un clichè adoperato ad hoc, non il fatto – mai dimostrato – che abbia ucciso”. Così afferma in un’intervista al Corriere della Sera (notare anche il giornalista compiacente) lo scrittore-avvocato americano Scott Turow, che aggiunge: “L’aver dipinto sin dal primo istante la Knox come una giovane americana viziosa, promiscua e drogata, giunta in Italia dalla capitale degli hippy Seattle solo per divertirsi, ha consolidato uno stereotipo con grande presa sulla vostra opinione pubblica".
Ecco il problema: Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati condannati in primo grado soltanto perché siamo un paese cattolico, che non ama le ragazze licenziose e che magari fanno uso anche di droga. Cosa che se fosse vera vedremmo Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti – nel processo attualmente in corso – condannati anche per le stragi di Bologna, Ustica e Piazza Fontana.
Stando al teorema di Turow perciò, quella folla che, fuori dal Tribunale di Perugia, a sentenza nota ha cominciato a fischiare e urlare “Vergogna, Vergogna!”, era senz’altro un gruppo di esagitati dell’Azione Cattolica e del Movimento Chierichetti.
Ma non è solo Turow; il quotidiano inglese The Daily Telegraph è ancora più preciso: il responsabile di questo flop giudiziario è il cattolico pubblico ministero Giuliano Mignini, che a causa della sua fede è anche fissato con il satanismo e le messe nere. Insomma, Mignini avrebbe legato la ricorrenza di Halloween – l’omicidio avvenne l’1 novembre – con presunti riti satanici a base di sesso che avrebbero portato alla morte di Meredith. Ovviamente, questa sarebbe pura fantasia scatenata nella testa del pubblico ministero dal suo essere cattolico.
In altre parole, secondo questi illuminati signori del mondo anglosassone, l’Italia è il paese della superstizione e della caccia alle streghe a causa della sua tradizione cattolica. Evidentemente non hanno letto la cronaca dei giornali italiani negli ultimi anni. Parlare di pregiudizio anti-cattolico in questo caso è perfino riduttivo.
Sia ben chiaro, noi non abbiamo elementi né a favore della colpevolezza né dell’innocenza, così come la stragrande maggioranza di coloro che – italiani e non – hanno scritto di questo processo. Guardiamo soltanto a ciò che è avvenuto intorno al processo, e non possiamo fare a meno di notare che al pregiudizio anticattolico si sposa anche una punta di razzismo da parte soprattutto dei media e dei politici statunitensi. Per loro Amanda Knox è innocente a prescindere: è americana, non può essere colpevole di alcunché avvenuto in terra straniera. Gli italiani non sono degni di giudicare un cittadino americano, come si osa portare alla sbarra chi è “superiore” per nascita?
Non è purtroppo la prima volta che accade: è successo per la strage del Cermis, è successo per la morte dell’agente segreto Nicola Calipari in Iraq. Ma in questi casi, si poteva pensare, il problema era che sul banco degli imputati c’erano dei militari. Nel caso di Perugia però - un fattaccio di cronaca nera senza alcun collegamento, neanche lontano, con la politica - abbiamo visto scendere in campo per fare pressione sulla giuria addirittura il segretario di Stato Hillary Clinton. Un fatto di cronaca nera che diventa affare di stato: unica prova dell’innocenza, la cittadinanza americana.
E giù a ricordarci che nel “perfetto” sistema giudiziario americano Amanda Knox sarebbe stata assolta subito perché non ci sono prove sufficienti della sua colpevolezza: «Il nostro sistema giudiziario – dice ancora Turow – parte sempre dal presupposto di innocenza. Sta all’accusa dimostrare la colpevolezza di un imputato, attraverso prove “al di là di ogni ragionevole dubbio”».
Che il nostro sistema giudiziario non sia un bell’esempio ne siamo ben coscienti (e lo conferma purtroppo anche il processo di Perugia con due sentenze che danno verdetti opposti), ma che normalmente si condanni sulla base di pregiudizi etnici e senza prove convincenti fa un po’ ridere. Soprattutto se questa lezioncina ci viene dagli Stati Uniti dove, guarda caso, tra gli oltre 400 cittadini italiani detenuti nelle locali carceri, ci sono due casi molto controversi. Anzitutto quello di Carlo Parlanti, accusato nel 2004 e poi condannato nel 2006 per stupro, violenza e sequestro di persona dall’ex compagna. La donna durante il processo ha offerto più versioni discordanti, le indagini non sono mai state fatte e, durante il processo, Parlanti non ha avuto neanche l’ausilio di un interprete. E in pochi giorni, si è trovato la condanna sulle spalle.
Il secondo caso è quello di Enrico (Chico) Forti, produttore di filmati per la tv, condannato nel 2000 all’ergastolo in Florida per l’omicidio di un immobiliarista al termine di un processo indiziario da cui non è emersa alcuna prova concreta a suo carico. A generare dubbi sulla sentenza è anche il fatto che Forti era entrato in pesante contrasto con la polizia, in relazione alle nebulose vicende che avevano portato alla morte dello stilista italiano Versace e, successivamente, del suo presunto assassino. Forti, anche in servizi televisivi, definì la polizia “corrotta”, insinuando che essa avrebbe confuso le acque per salvaguardare i veri colpevoli. Da quel momento iniziano i guai e la sentenza lo condanna all’ergastolo “per aver personalmente e/o con altra persona o persone allo Stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamene, la morte di Dale Pike”. Accuse vaghe, come quelle della pubblica accusa nella requisitoria finale: “Lo Stato non ha bisogno di provare che Forti è il killer per provare che proprio lui sia stato il colpevole dell’omicidio…”.
Questo sarebbe l’esempio di prove “al di là di ogni ragionevole dubbio”, secondo la giustizia americana. O almeno se l’imputato è italiano. Ma il nostro ministro degli Esteri, benché sensibilizzato sul tema, nemmeno si sogna di fare qualche domanda alla signora Clinton.
Che il nostro sistema giudiziario non sia un bell’esempio ne siamo ben coscienti (e lo conferma purtroppo anche il processo di Perugia con due sentenze che danno verdetti opposti), ma che normalmente si condanni sulla base di pregiudizi etnici e senza prove convincenti fa un po’ ridere. Soprattutto se questa lezioncina ci viene dagli Stati Uniti dove, guarda caso, tra gli oltre 400 cittadini italiani detenuti nelle locali carceri, ci sono due casi molto controversi. Anzitutto quello di Carlo Parlanti, accusato nel 2004 e poi condannato nel 2006 per stupro, violenza e sequestro di persona dall’ex compagna. La donna durante il processo ha offerto più versioni discordanti, le indagini non sono mai state fatte e, durante il processo, Parlanti non ha avuto neanche l’ausilio di un interprete. E in pochi giorni, si è trovato la condanna sulle spalle.
Il secondo caso è quello di Enrico (Chico) Forti, produttore di filmati per la tv, condannato nel 2000 all’ergastolo in Florida per l’omicidio di un immobiliarista al termine di un processo indiziario da cui non è emersa alcuna prova concreta a suo carico. A generare dubbi sulla sentenza è anche il fatto che Forti era entrato in pesante contrasto con la polizia, in relazione alle nebulose vicende che avevano portato alla morte dello stilista italiano Versace e, successivamente, del suo presunto assassino. Forti, anche in servizi televisivi, definì la polizia “corrotta”, insinuando che essa avrebbe confuso le acque per salvaguardare i veri colpevoli. Da quel momento iniziano i guai e la sentenza lo condanna all’ergastolo “per aver personalmente e/o con altra persona o persone allo Stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamene, la morte di Dale Pike”. Accuse vaghe, come quelle della pubblica accusa nella requisitoria finale: “Lo Stato non ha bisogno di provare che Forti è il killer per provare che proprio lui sia stato il colpevole dell’omicidio…”.
Questo sarebbe l’esempio di prove “al di là di ogni ragionevole dubbio”, secondo la giustizia americana. O almeno se l’imputato è italiano. Ma il nostro ministro degli Esteri, benché sensibilizzato sul tema, nemmeno si sogna di fare qualche domanda alla signora Clinton.