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BARI

Alla Fiera del Levante il lavoro è una lotteria

Su 9mila domande, sorteggiati i 300 operatori che lavoreranno per 10 giorni. Tanto clamore per mascherare i fallimenti dei politici meridionali.

Attualità 12_08_2011
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Quattrocento euro lordi per dieci giorni di lavoro. In oltre novemila fanno la domanda per essere sorteggiati in trecento. Faranno gli operatori di accoglienza agli stand, gli impiegati e gli addetti alle biglietterie alla prossima “Fiera del Levante” di Bari, che si terrà nel mese di settembre.
Una scelta curiosa, forse anche demagogica, che intanto abolisce il criterio classico e naturale della selezione – per i costi gravosi, è stato detto - e rispetto alla quale qualche altra considerazione va pur fatta.

In Italia, ci sono 7mila enti strumentali (Consorzi, Aziende, Società), che occupano circa 24mila persone nei consigli di amministrazione e ci sono anche enti, come la Fiera del Levante - i cui dirigenti, da sempre, sono nominati dalle segreterie dei partiti e dal potere che si avvicenda al governo della Regione - che pur registrando enormi perdite d’esercizio (4.116.000 euro nel 2010), continuano ad esistere senza proporre un piano industriale di rilancio e senza agire per una salutare privatizzazione, affidandosi in questo caso ad una lotteria per balzare alle cronache, anche nazionali.

Può essere questa la risposta ai tanti che in particolare al Sud sono alla ricerca disperata di un lavoro?

In Puglia - i dati sono della Banca d’Italia al 30 giugno - il tasso di disoccupazione è aumentato al 13,5 per cento; in una famiglia su cinque, nessuno dei componenti in età lavorativa ha un'occupazione; il numero dei giovani che non lavorano o non studiano, riguarda oggi circa un giovane pugliese su tre. E’ una situazione esplosiva, di pre-rivolta sociale, non governata – con buona pace di Nichi Vendola - che risente, come avviene in tante parti del Mezzogiorno, di problemi di carattere strutturale, ai quali si sono aggiunti gli effetti della crisi economica che si trascina.
Altri dati di fatto fanno del Sud un caso a parte rispetto al resto del Paese: l’estesa mancanza di cultura, generatrice primaria di povertà; l’infiltrazione dell’economia criminale all’interno delle strutture economiche e dei centri di potere; la responsabilità della cosiddetta società civile, che tende a trarre benefici dal suo rapporto distorto e ricattatorio con il potere; l’incapacità di un ceto politico e dirigente che da decenni non solo non riesce ad esprimere uno straccio di progetto complessivo per lo sviluppo, ma è anche capace di perdere le opportunità di cospicue risorse economiche che pur vi potrebbero essere.

Il Sole 24 Ore, qualche settimana fa, denunciava il fatto che l’Italia rischia di perdere  44,1 miliardi di euro che a partire dal 2013 potrebbero tramutarsi in un ricordo. Sono i fondi europei, utilizzabili per favorire lo sviluppo delle aree svantaggiate. Secondo l'attività di monitoraggio esercitata dalla Ragioneria generale dello Stato (l'ultimo resoconto si riferisce al 2010) nelle regioni a Obiettivo Convergenza (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia) i pagamenti sono fermi al 9,6%, mentre in quelle a Obiettivo Competitività la quota sale al 18,8%.

Un quadro della situazione emerge dall’analisi realizzata dall'Ifel, la fondazione sulla finanza locale dell'Anci, secondo cui alcuni dei problemi legati allo sfruttamento delle risorse comunitarie stanno nella frammentazione degli interventi, nella confusione tra gestione e programmazione e nel dirottamento dei fondi comunitari su programmi poco strategici. L'Ifel spiega che i Comuni sono destinatari di quasi un quarto dei fondi Fesr (Fondo europeo per lo sviluppo regionale) 2007-2013, pari a 30,6 miliardi di euro, ma per finanziare piccoli progetti difficili da monitorare. Devono realizzare 2.410 progetti distribuiti per 1.293 enti, un progetto ogni sei Comuni che, nelle regioni del Sud, sale al 43% e in Calabria raggiunge la quota massima dell'89%.

Il 40% dei progetti non è neppure all'inizio e il 43,5% dei progetti non supera il valore dei 150mila euro: sono piccole operazioni che difficilmente crereanno valore aggiunto per la realtà nella quale verranno realizzati e  riusciranno a colmare il gap di infrastrutture e di servizi pubblici che separa le aree svantaggiate dal resto del Paese. Eppure gli ambiti di intervento vanno proprio in queste direzioni. Infatti, il grosso delle risorse (36,2%) dovrebbe favorire la riqualificazione di aree urbane, industriali e commerciali; il 33,3% dovrebbe essere destinato per favorire la mobilità; l'11,9% per la salvaguardia del territorio; l'11,4% per la tutela del patrimonio artistico e culturale e il 7,2% dovrebbe essere utilizzato per l’inclusione sociale e l’efficienza energetica.

Questo tipo di interventi può generare il rilancio dell’economia e della produttività, soprattutto per quanto riguarda le piccole e medie imprese e la conseguente crescita occupazionale.

E’ l’irresponsabilità di un’intera classe dirigente meridionale – abituata a piangersi addosso e non ammettere i suoi errori – a provocare la situazione che abbiamo dinnanzi, dove l’incubo del futuro assale anche una parte consistente della popolazione che fino a poco tempo si sentiva protetta.
L’unica speranza è che nasca – ma all’orizzonte non se ne intravvede ancora traccia – una politica credibile, fatta da persone culturalmente e umanamente attrezzate, che al Sud come altrove, realizzi riforme serie, coerenti alla gravità della situazione. Così, si eviterebbe anche l’aggrapparsi ai gratta e vinci che proliferano e alle lotterie per cercare lavoro.