Alitalia, al referendum hanno perso tutti
Referendum Alitalia: ha perso il governo, che aveva avvisato i lavoratori che non ci sarebbe stato un piano di riserva e che la compagnia avrebbe chiuso i battenti. Poi i sindacati, inadeguati a rappresentare le istanze dei lavoratori. E votando "no" al preaccordo, i lavoratori probabilmente perderanno il lavoro.
Hanno perso tutti. Anzitutto il governo, che perfino a urne aperte aveva avvisato che non ci sarebbe stato un piano di riserva e che la compagnia avrebbe chiuso i battenti. Poi i sindacati, che hanno ancora una volta dimostrato la loro inadeguatezza a rappresentare le istanze dei lavoratori. Infine questi ultimi, che a stragrande maggioranza (67%) hanno votato “no” al referendum sul pre-accordo per il salvataggio della compagnia e ora vivono momenti drammatici.
Questa è la storia di Alitalia, azienda privata che si avvia verso la messa in liquidazione, dopo che ieri il cda, preso atto dell’esito negativo del referendum indetto tra i lavoratori e dell’impossibilità di una ricapitalizzazione, ha deliberato il commissariamento. Cosa succederà ora è difficile dire, anche se l’ipotesi più probabile è che la compagnia di bandiera italiana venga messa sul mercato. Potrebbe realizzarsi il cosiddetto “spezzatino” con i vari asset ceduti a vari aspiranti acquirenti.
Ma dall’agonia di Alitalia si possono trarre alcuni insegnamenti dei quali fare tesoro per evitare che analoghi errori vengano commessi in altri comparti produttivi. Più volte negli ultimi anni i governi hanno assicurato un paracadute alla compagnia aerea, pur sapendo che i suoi lavoratori erano sovradimensionati come organico, godevano di privilegi inaccettabili rispetto ai loro colleghi di altre compagnie straniere e percepivano stipendi superiori alla media del settore. Perché tutto questo? Perché le logiche di mercato nel nostro Paese, imperniate sull’elementare ma provvidenziale principio di competitività, sono sempre state sacrificate sull’altare delle logiche politico-partitiche e corporative assai dominanti nella storia di Alitalia. Nessun governo si è mai voluto assumere l’onere di far fallire la compagnia di bandiera italiana, temendo impopolarità e ritorni negativi sul piano elettorale. Oggi il clima è profondamente cambiato. La gente sarebbe probabilmente disposta a patire qualche disagio temporaneo, tipo la cancellazione di alcuni voli, pur di veder scrivere la parola fine sull’assurda pratica degli aiuti di Stato con i quali si è tenuta in vita per tanti lustri una compagnia sistematicamente in perdita, con i bilanci in rosso e con gestioni manageriali alquanto discutibili.
La cosa paradossale è che a intonare il de profundis alla propria azienda sono stati proprio i suoi dipendenti, che, pur di non rinunciare a privilegi e privative fuori da ogni parametro di mercato, hanno preferito votare per una sorta di “suicidio assistito” anziché accettare di percorrere la strada di un problematico risanamento all’insegna dei sacrifici e delle rinunce. Forse, dicono i più maliziosi, perché sperano ancora in un “piano B”, in una sorta di salvataggio di Stato sul modello di alcune banche o dell’Ilva.
In passato, per altri referendum analoghi, i lavoratori di Pomigliano d’Arco hanno dimostrato maggior senso di responsabilità e si sono messi in discussione fino in fondo, sopportando cure dimagranti. Per hostess e personale navigante Alitalia tutto questo invece è risultato inaccettabile e ora ecco scorrere i titoli di coda sulla vicenda aziendale della compagnia.
La gestione di alcune rotte è stata alquanto discutibile, sono prevalsi per troppo tempo interessi corporativi e di piccolo cabotaggio e si è deciso di mantenere in vita voli in perdita che viaggiavano quasi vuoti, soltanto per non turbare equilibri interni. A lungo andare a farne le spese è stata la complessiva efficienza dell’azienda.
Al referendum conclusosi due giorni fa hanno votato in prevalenza “si” al pre-accordo il personale di terra, quello addetto alla manutenzione e gli amministrativi, mentre, come detto, chi vola per ore e ore sugli aerei Alitalia ha votato massicciamente “no” per non fare concessioni su riposi e decurtazione di stipendi.
Il governo ha ribadito la sua posizione: non ci sono margini per una nazionalizzazione, che richiederebbe esborsi insostenibili e sarebbe contraria a quanto sostenuto pubblicamente dai ministri competenti per mesi e mesi. Inoltre, l’Europa certamente non avallerebbe un’operazione di questo tipo, bollandola come “aiuto di Stato” contrario alle norme sulla libera concorrenza. Non resta, quindi, che aspettare nuove improbabili cordate. Visto quanto accaduto in altri ambiti, come il calcio, non tutti escludono un soccorso cinese o arabo, ma anche in questo caso ci sarebbero problemi di regolamentazione su base europea.
Per ora, quindi, regna lo stallo. L’esecutivo Gentiloni ha ben pochi margini e può solo sperare nel miracolo, cioè nell’avvento di nuovi compratori seriamente interessati a rilevare in tutto o in parte un’azienda in perdita, risanandola con drastici tagli di personale e di voli. Sui passeggeri al momento non dovrebbero esserci ripercussioni e gli aerei Alitalia probabilmente continueranno a viaggiare regolarmente, soprattutto negli orari più affollati e di più intenso traffico. Almeno fino all’estate.
Forse la situazione si è incancrenita nel tempo e i colpevoli non vanno rintracciati solo tra chi è al governo ora o tra chi ha gestito l’azienda negli ultimi anni. Se si fosse affrontata con mature scelte industriali l’emergenza della compagnia aerea di bandiera già vent’anni fa, probabilmente non saremmo arrivati sull’orlo del baratro.
I lavoratori, respingendo l’ipotesi di preaccordo, che, lo ricordiamo, avrebbe assicurato una ricapitalizzazione di due miliardi, hanno tentato il tutto per tutto e ora, probabilmente, molti di loro saranno costretti a cercare lavoro in altre compagnie. Salvare a tutti i costi e in più occasioni un’azienda gestita male e con criteri manageriali alquanto discutibili non è stato un buon affare per il sistema Italia. L’ostinazione sul mito della difesa a oltranza dell’italianità della compagnia non ha portato bene, anzi ha provocato danni enormi a tutti. E allora, se il “piano B” c’è davvero, è il caso che venga fuori al più presto. Altrimenti, una volta tanto, e finalmente, ci si affidi alla libera concorrenza e alla libertà di iniziativa economica, peraltro in un settore strategico come quello del trasporto aereo, cruciale per la crescita del nostro Paese. Assicurare un servizio di trasporto aereo efficiente, a prescindere dalla sopravvivenza di Alitalia, è l’unico dovere di un governo responsabile.