TERZO MONDO
Aiuti allo sviluppo da ripensare
Ci si lamenta per la scarsità degli aiuti, ma ci si dovrebbe soprattutto preoccupare dei modi in cui vengono gestiti. Vedi il caso del Kenya.
Attualità
05_12_2011
Se è vero che non tutto il male vien per nuocere, magari qualcosa di utile può scaturire dalla crisi finanziaria che ci travolge: impotenti e soprattutto increduli di tanto debito nazionale accumulato pur essendo l’Italia uno degli otto paesi più industrializzati del mondo ed essendo noi stati allevati per generazioni con il senso del risparmio e del limite.
Per esempio, può darsi che proviamo ad amministrare con più attenzione le nostre limitate risorse, a incominciare da quelle destinate a chi è più povero di noi. Il ministro della cooperazione e dell’integrazione Andrea Riccardi, appena insediato, ha esortato gli italiani a “ritrovare le ragioni e la saggezza dell’aiutare chi è lontano e chiede sostegno”. Lo ha fatto con un messaggio inviato alla FOCSIV, la Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario, in occasione della cerimonia di premiazione del Volontario dell’anno: un premio assegnato quest’anno a Riccardo Giavarini, da 35 anni impegnato in Bolivia nel Progetto Mondo Mlal.
Prima il ministro aveva ricordato che “dalla metà degli anni Novanta in poi, l'aiuto allo sviluppo dell'Italia è stagnante. Siamo ben lontani dall'obiettivo europeo del 0,5 per cento o di quello dell'ONU dello 0,7 per cento. L'anno scorso abbiamo raggiunto un minimo storico (0,15 per cento del PIL) finendo al penultimo posto nella classifica dei donatori, davanti solo alla Corea. Per il 2012, a legislazione vigente, le previsioni sono di un ulteriore ribasso: soltanto lo 0,12 per cento”.
È evidente che in questo frangente non si tratta tanto di “ritrovare” le ragioni e la saggezza dell’aiutare – che agli italiani non mancano vista la generosità e la prontezza con cui si prodigano in attività di volontariato e con cui devolvono parte dei loro redditi ai bisognosi, vicini e lontani, tutti accomunati dall’essere il nostro prossimo – quanto di reperire fondi, il che per il momento sarà difficile essendo talmente indebitati da rischiare a quanto pare la bancarotta.
Ma, tanto più se scarsi, i capitali che d’ora in poi sarà possibile destinare a “chi è lontano e chiede sostegno” sarebbe bene che fossero usati con più criterio, prima di tutto per rispetto di chi li ha prodotti impiegando tempo, fatica e ingegno. Scopriamo in questi giorni che il colonnello Gheddafi era l’uomo più ricco del mondo con 200 miliardi di dollari. A ruota, dopo di lui, vengono decine di altri leader africani che nel mezzo secolo e più dalle indipendenze hanno accumulato ricchezze miliardarie semplicemente attingendo alle risorse nazionali e a quelle inesauribili fornite dalla cooperazione internazionale allo sviluppo.
Da decenni, nonostante qualche passo avanti, ma spesso più vistoso che reale, non aiutiamo lo sviluppo africano, per ingenti che siano i mezzi messi a disposizione. Non lo aiutiamo perché molto del denaro prestato e donato sparisce, dirottato su conti e beni personali di leader e funzionari. In questi giorni, ad esempio, il governo del Kenya è chiamato a rendere conto di una serie di somme ricevute e scomparse nei meandri della corruzione di stato di cui i benefattori esigono la restituzione dal momento che i progetti ai quali erano destinate non sono stati realizzati: la Gran Bretagna reclama quasi due milioni di euro offerti per finanziare l’educazione primaria e altri progetti; la Banca Mondiale rivuole i 7,5 milioni di euro donati per l’iniziativa “Lavoro per i giovani” e il Canada intende recuperare i suoi 385 mila euro donati per altri progetti minori.
Prima ancora il nostro denaro non aiuta lo sviluppo quando manca nei partner, ovvero nei governi dei paesi poveri, la volontà di sviluppare l’economia a beneficio della collettività. In molti casi, in effetti, se tale volontà esistesse, non ci sarebbe bisogno di aiuti esterni. Si chiamano paesi poveri, ma quasi tutti quelli africani dispongono di due fondamentali risorse: una popolazione giovane e ricchezze naturali immense. La Guinea Equatoriale, ad esempio, conta poco più di 700 mila abitanti e produce petrolio dal 1994. Potrebbe essere uno dei paesi al mondo in cui si vive meglio. Ma l’Indice di sviluppo umano 2011 dell’Undp, l’agenzia dell’ONU per lo sviluppo, la colloca tra i paesi a basso sviluppo, esattamente al 136° posto, con una speranza di vita alla nascita di soli 51 anni (rispetto agli 82 dell’Italia, ad esempio).
A ragione nei giorni scorsi Papa Benedetto XVI ha più volte denunciato corruzione e malgoverno come i primi responsabili, insieme al tribalismo e alla stregoneria, dei problemi economici e sociali dell’Africa.
È un buon momento per ripensare i nostri rapporti con i partner di cooperazione, o presunti tali, nell’interesse comune di non alimentare proprio i fenomeni che si vorrebbero combattere.