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MISSIONI

Afghanistan, bugie sul ritiro

53 soldati uccisi e 5 miliardi di euro spesi in 11 anni per una guerra persa. Ce ne è abbastanza per aprire un dibattito serio sulla presenza italiana in Afghanistan. Il governo tranquillizza sul futuro: ce ne andiamo nel 2014. Ma non è così: l'Italia ha appena firmato un accordo fino al 2017.

Esteri 11_06_2013
Il ritorno del bersagliere ucciso

L’ennesimo caduto italiano in Afghanistan, il capitano Giuseppe La Rosa, ha molto in comune con i 52 militari che lo hanno preceduto nella tragica lista delle perdite subite dal nostro contingente. Non solo perché è morto in servizio sul fronte afghano, ucciso da una bomba talebana, ma anche perché la sua uccisione ha sollevato le ormai tradizionali polemiche sulla presenza italiana a Herat e Kabul, polemiche che da anni esplodono immancabili ogni volta che un nostro militare viene ferito o ucciso. Questa volta però a chiedere il ritiro dei 3 mila militari rimasti a Herat e dei 200 a Kabul, o quanto meno a interrogarsi sul senso di quella missione, non è solo la sinistra o i movimenti pacifisti ma anche molti esponenti di Pdl e Lega Nord.

La questione meriterebbe un attento e serio dibattito politico “a freddo”, non davanti alla salma di ogni caduto riportato in Patria con la bara avvolta nel Tricolore, ma da tempo a Roma sembra impossibile un approccio razionale ai temi di politica estera. Chiedersi cosa restiamo a fare in Afghanistan è giusto oltre che comprensibile soprattutto tenendo conto dei costi sostenuti in termini di perdite in vite umane e finanziari, quasi 5 miliardi di euro spesi dal 2002 che rischiano di apparire troppi non solo in tempi di crisi economica ma anche a fronte dei risultati conseguiti.

La guerra afghana è stata perduta nel 2010, quando Barack Obama accettò di inviare 33 mila soldati di rinforzo annunciando però che dall’anno successivo sarebbe iniziato il ritiro delle forze alleate. Negli ultimi mesi i soldati della NATO sono scesi a meno di 100 mila ma hanno abbandonato molte aree calde lasciate a presidio alle deboli e spesso inaffidabili forze di sicurezza afghane. Il risultato di questo processo di “transizione” è che i talebani hanno ripreso il controllo di distretti che erano stati liberati col sangue degli oltre 3.300 soldati alleati caduti. Questo vale anche per il settore affidato agli italiani poiché i distretti di Bala Murghab, Bakwa e Gulistan. dai quali i nostri si ritirarono nel settembre/dicembre scorso, sono di fatto tornati sotto il controllo degli insorti che assediano le guarnigioni governative mentre nell’area di Kabul la base Sterzig istituita dagli alpini è oggi nelle mani dei talebani che da lì controllano l’accesso meridionale alla capitale.  

Anche se la missione dell’International Security Assistance Force (Isaf) si concluderà solo alla fine del 2014, già da oggi le forze alleate hanno quasi del tutto abbandonato i compiti di prima linea se si escludono le incursioni aeree e il lavoro dei Military Advisor Team (MAT) i consiglieri militari che affiancano le truppe di Kabul. Il capitano La Rosa era alla testa di uno di questi team, sempre esposti al fuoco nemico che ha incrementato gli attacchi (più 24 per cento rispetto all’anno scorso secondo l’Onu)  prendendo di mira soprattutto le truppe governative e i consiglieri occidentali. In settembre gli italiani lasceranno anche la provincia calda di Farah, un ritiro anticipato di un anno rispetto alla tabella di marcia messa a punto nel 2011 che rischia di cedere altro terreno agli insorti. Anche perché i rapporti statunitensi parlano chiaro circa le capacità degli afghani: solo 15 dei 219 battaglioni dell’esercito (7 per cento) e 39 su 435 unità di polizia (9 per cento) sono in grado di combattere autonomamente anche se con l’assistenza dei MAT.  Gli altri riescono a malapena a presidiare le basi.

Che la sconfitta sia nell’aria lo dimostrano anche le note di linguaggio adottate dalla Nato e recentemente  modificate per dare l’impressione che la guerra sia ormai un problema esclusivamente degli afghani. Il termine “insurgents” è stato rimosso e sostituito da “nemici dell’Afghanistan “ o “estremisti”  mentre sabato il comunicato della Difesa che informava dell’attacco nel quale è stato ucciso La Rosa parlava genericamente degli autori come di “elementi ostili”, termine utilizzato anni or sono prima che anche Roma adottasse la parola “insorti”.  Di fronte all’ennesimo caduto in una guerra già perduta dalla quale la Nato cerca di ritirarsi con onore, il governo italiano risponde in modo evasivo, più con slogan che con argomentazioni convincenti, alle richieste di ritiro delle truppe.

Il premier Enrico Letta ha sostenuto che “non si pone il problema dell'uscita dall'Afghanistan che è stato già fissato nel 2014”. In realtà Roma ha già approvato (ma non in Parlamento)  il piano dell’Alleanza Atlantica che si svilupperà per almeno un triennio dopo il 2014 con la missione addestrativa e di consulenza “Resolute Support” il cui concetto operativo è stato definito il 5 giugno a Bruxelles. In questa missione, che non prevede compiti di combattimento se non per la difesa delle truppe  delle basi, gli italiani avranno un ruolo di grande rilievo sempre nello stesso settore occidentale. Mentre britannici e francesi si defileranno lasciando in Afghanistan pochi consiglieri e istruttori, Germania e Italia invece manterranno il comando di due dei cinque settori ai quali fanno capo oggi i Comandi Regionali della forza Nato. Un impegno non irrilevante che ha ottenuto un pubblico elogio da parte del segretario alla Difesa statunitense, Chuck Hagel.

Questo significa che oltre ai consiglieri militari manterremo a Herat un comandante di contingente (un colonnello o più facilmente un generale) che si interfaccerà con le autorità militari e civili afghane dell’Ovest e con il vertice della missione a Kabul. Il numero di militari italiani assegnati alla missione sarà certo inferiore agli attuali 3.200 effettivi e anche ai 1.800 che saranno presumibilmente presenti a Herat tra un anno. Non sarà però limitato a poche decine di istruttori e consiglieri poiché a questi ultimi occorrerà assicurare un ampio supporto logistico, una forza da combattimento per difendere le basi di Herat e Shindand e intervenire in quel settore ovunque ve ne sia bisogno disponendo quindi di elicotteri e forse anche droni.

Insomma, dopo il 2014 i militari italiani non solo resteranno in Afghanistan ma vi schiereranno presumibilmente non meno di 600/800 militari, entità simile a quella già annunciata dai tedeschi che avranno compiti simili nel nord del Paese. Il dato numerico italiano  non è stato ancora diffuso ma con forze più limitate la missione non potrà essere effettuata. I rischi inoltre non saranno certo inferiori a quelli che corrono attualmente i nostri militari soprattutto per i MAT che operano in piccole colonne di due o tre veicoli e affiancano le truppe afghane tra le quali si nascondono molti infiltrati talebani responsabili di almeno il 20 per cento delle perdite sofferte dagli alleati dall’inizio di quest’anno.

Anche in termini finanziari l’Afghanistan continuerà a pesare sulle tasche degli italiani. La nuova missione non costerà infatti meno di 150 milioni di euro all’anno ai quali occorre aggiungere l’impegno assunto da Roma di versare 120 milioni di dollari all’anno tra il 2015 e il 2017 per sostenere l’esercito afghano che necessiterà di 4,1 miliardi di dollari all’anno, metà dei quali stanziati dagli Stati Uniti e metà dagli altri alleati. Meglio quindi che a Roma mettano da parte la facile demagogia circa l’imminente ritiro e il limitato impegno futuro.