Accordo con Hanoi. I perseguitati non interessano
Barack Obama ha concluso un altro storico accordo con il Vietnam, rimuovendo l'embargo sulle armi. Non è stata neppure discussa la libertà di religione. L'unica vittoria è la scarcerazione del sacerdote cattolico Nguyen Van Ly, un gesto di distensione da parte del regime di Hanoi.
Barack Obama, al primo giorno della sua visita nel Vietnam, ha subito annunciato la fine dell’embargo sulle armi. Incontrandosi con il suo omologo vietnamita Tran Dai Quang, il presidente Usa ha promesso in conferenza stampa la nascita di una nuova era nelle relazioni dei due Stati. Con un tratto di penna, dopo aver cancellato il lungo embargo a Cuba, ha eliminato “l’ultima vestigia della Guerra Fredda”, come lui stesso ha avuto modo di dichiarare. Dieci anni di guerra, quarantuno anni di sanzioni sono così archiviati nella storia. Quasi l’80% dei vietnamiti di oggi ritiene gli Usa un paese amico. Ma i dissidenti, soprattutto i perseguitati per la loro fede, ora hanno ancora meno speranze di migliorare la loro condizione sotto un regime che impone l’ateismo di Stato, esattamente come mezzo secolo fa.
“In questo stadio (delle relazioni, ndr), entrambe le parti hanno stabilito un livello di mutua fiducia e cooperazione, compresa quella fra le nostre forze armate, che riflette interessi comuni e reciproco rispetto – ha dichiarato Obama ieri – Questo cambiamento assicurerà al Vietnam l’accesso all’equipaggiamento di cui ha bisogno per difendersi e verrà rimossa l’ultima vestigia della guerra fredda”. I diritti umani, la libertà di religione, sono entrati nell’agenda degli incontri solo formalmente. Nelle galere del regime comunista sono detenuti almeno 100 prigionieri politici e di coscienza. Un comunicato della Casa Bianca, emesso alla vigilia della visita, chiedeva ad Hanoi la loro liberazione. Evidentemente non si trattava di una clausola vincolante. Il Vietnam ha, infatti, potuto ottenere sia l’accordo di libero scambio trans-pacifico (Tpp), sia, come è stato annunciato ieri, anche la fine dell’embargo militare, senza dover liberare nessuno. Nemmeno i sette blogger arrestati a marzo, processati sommariamente e condannati per “diffusione di propaganda contro lo Stato”.
Neppure la libertà di religione è stata posta in agenda. Non è in discussione la legge sulle religioni, che entrerà in vigore entro la fine dell’anno, che peggiora grandemente la condizione dei fedeli vietnamiti. Con la nuova norma sarà molto più ardua la costruzione di nuovi edifici di culto, la gestione del personale e la stesura dei programmi. La Commissione per la Libertà di Religione Internazionale degli Usa ha raccomandato al Dipartimento di Stato di inserire il Vietnam nella lista Cpc (paesi che destano particolare preoccupazione) per 16 anni consecutivi, sin dal 2001. Il Dipartimento di Stato ha rimosso il Vietnam da quella lista dal 2006 (quando era ancora presidente George W. Bush e segretaria di Stato Condoleezza Rice) e non lo ha mai più inserito di nuovo, per motivi politici, soprattutto.
Si è registrata una sola concessione, limitata per quanto clamorosa: il regime di Hanoi, alla vigilia della visita di Barack Obama, ha scarcerato il prete cattolico Nguyen Van Ly. Pur essendo molto meno noto nel mondo rispetto alla dissidente birmana Aung San Suu Kyi, il sacerdote vietnamita ha trascorso molto più tempo in carcere e in condizioni estremamente più dure: la sua spassionata difesa dei diritti umani e della libertà religiosa, gli è costata quattordici anni di carcere, dal 1977 al 2004, a cui è seguita un’altra condanna a tredici anni (di cui cinque in libertà vigilata) nel marzo del 2007, appena tre anni dopo la sua prima liberazione. La foto del suo processo, dove una guardia gli tappa la bocca con forza per impedirgli di parlare e di difendersi, ha fatto scandalo in tutto il mondo. Ora è stato scarcerato per ordine del regime, a seguito di un “perdono” da parte dello Stato. Una volta a piede libero, Nguyen Van Ly ha tenuto a precisare che non si possono perdonare colpe non commesse.
La volontà di giungere a un accordo con il Vietnam può avere solo due spiegazioni, una strategica e l’altra ideologica. Quella strategica è abbastanza evidente, anche se nessuna delle due parti intende ammetterla: si tratta di completare la cortina di contenimento della Cina. Il Vietnam contende alla Repubblica Popolare il Mar Cinese Meridionale, in particolare gli arcipelaghi delle Spratly e delle Paracels. Non si tratta solo di fondali marini potenzialmente ricchi di risorse, ma anche di un tratto di mare essenziale per la navigazione, praticamente la porta dello stretto della Malacca, una delle più importanti rotte petrolifere mondiali. Gli Usa e il Vietnam condividono l’interesse nel tenere aperta quella rotta, la Cina, al contrario, la vorrebbe presidiare. E su alcune di quelle isole, come a Wood Island, sta costruendovi basi militari. Di fronte all’urgenza di prevenire una potenziale crisi con Pechino, gli Usa hanno fretta di integrare il Vietnam nel loro sistema strategico, che include già le basi nelle Filippine e a Guam, l’alleanza con Taiwan, la presenza militare in Corea del Sud e l’alleanza con il Giappone. Guardando la carta del Pacifico occidentale, si può constatare come gli Usa abbiano formato un grande arco nel Pacifico, capace di contenere la Cina. Il Vietnam è il suo estremo meridionale. Obama afferma che la fine dell’embargo non abbia alcuna valenza anti-cinese. Pechino, dal canto suo, ribadisce la sua soddisfazione per il miglioramento delle relazioni fra la potenza americana e il suo vicino asiatico. Entrambi paiono fare buon viso a cattivo gioco. Ma è comunque questo il gioco diplomatico che giustifica il sacrificio dei diritti umani sull’altare dell’interesse nazionale.
Non va trascurata neppure la componente ideologica. A chiudere la lunga guerra fredda col Vietnam sono Barack Obama e John Kerry. L’attuale presidente era troppo giovane per partecipare alla contestazione contro l’intervento militare americano nel Sudest asiatico, ma la sua formazione politica è avvenuta comunque in ambienti pacifisti. Nel 2013, nel corso della visita di Stato vietnamita negli Usa, Obama si era lasciato andare a paragonare il fondatore del regime comunista, Ho Chi Minh, ai padri fondatori americani. Fu una scivolata grave, che suscitò le proteste dei reduci e dell’opposizione, che non rese giustizia al milione e mezzo di vittime delle purghe comuniste vietnamite e fu rivelatrice di una certa visione artatamente romantica del regime di Hanoi, tipica dell’estrema sinistra americana. L’attuale segretario di Stato, dal canto suo, è egli stesso un pezzo di storia del pacifismo: prestò servizio sotto le armi proprio in Vietnam e, una volta tornato in patria, divenne un animatore del movimento di contestazione. Nel 1971, divenne celebre con la sua testimonianza al Senato sui crimini di guerra americani nel Sudest asiatico, arrivando a paragonare l’esercito in cui aveva prestato servizio alle orde di Gengis Kahn. Sui contemporanei crimini del regime comunista, al contrario, non si ricorda alcuna sua dichiarazione.
I cristiani del Vietnam devono attendere un altro momento storico, prima di veder riconosciuti i loro diritti. Forse anche un altro presidente.