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MEDIO ORIENTE

Accordi Israele-Hamas, punto di partenza e non di arrivo

La soddisfazione per il cessate il fuoco e il rilascio di ostaggi e prigionieri non deve far dimenticare che la strada per arrivare a una pace duratura è ancora molto lunga e piena di incognite. E c'è anche un problema di leadership in entrambi i campi

Editoriali 10_10_2025

A scorno dei suoi detrattori, bisogna dare atto al presidente americano Donald Trump di essere il principale protagonista dell’accordo Israele-Hamas su cui fino a pochi giorni fa nessuno avrebbe scommesso. Si capisce quindi la sua aspirazione a ricevere il Premio Nobel per la Pace, malgrado le scelte degli ultimi decenni abbiano decisamente svalutato il significato di questo premio.
Ma sarebbe ben triste se il giorno dei festeggiamenti in Israele e a Gaza (nella foto LaPresse) per il cessate il fuoco l’attenzione si spostasse dalla situazione in Medio Oriente ai desideri – vedremo se soddisfatti - di Trump.

In ogni caso l’accordo – raggiunto anche grazie alla collaborazione di Egitto, Qatar e Turchia, a cui Trump ha riconosciuto il credito – non va considerato un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Non solo perché lo scambio di prigionieri e il cessate il fuoco sono soltanto i primi punti del Piano di pace annunciato la settimana scorsa da Trump, a cui ne dovranno seguire altri, più complicati da realizzare e ancora da negoziare; ma perché per garantire una futura stabilità andranno affrontati alla radice i nodi alla base di un conflitto che dura da almeno 77 anni. Il patriarca latino di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa lo ha detto più volte e lo ha ribadito ancora ieri: «La fine della guerra non è la fine del conflitto».

In questo momento delicato c’è da temere soprattutto qualche azione di sabotaggio da parte di elementi o fazioni che nell’uno e nell’altro campo si oppongono agli accordi. Purtroppo in Medio Oriente accade spesso che quando si avvicinano degli accordi di pace ci sia chi provi a far saltare tutto con qualche gesto clamoroso. Anche il massacro del 7 ottobre 2023 rientra in questa fattispecie, visto che è accaduto proprio mentre si attendeva la firma degli Accordi di Abramo tra Israele e Arabia Saudita, da allora rimasti congelati. E risalendo più indietro, ricordiamo nel 1995 l’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin ad opera di un colono che lo considerava un traditore per aver firmato gli accordi di Oslo con il leader palestinese Yasser Arafat.

L’accordo firmato il 9 ottobre, inoltre, mette in una posizione difficile soprattutto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha dovuto rinunciare al piano di sgombero di Gaza dalla presenza palestinese e all’annessione della Cisgiordania (obiettivi che sono stati via via esplicitati durante la guerra), anche se la situazione di quelle che gli israeliani chiamano Giudea e Samaria è ancora tutta da definire in base al Piano Trump. E per poter arrivare a un accordo ha dovuto riconoscere Hamas come legittima controparte. Per cui sarà difficile immaginare una tranquilla uscita di scena del gruppo terroristico come prevederebbe il Piano Trump.

Piuttosto l’accordo dimostra il grave errore di Netanyahu che ha preteso di eliminare Hamas soltanto con la forza delle armi, e infatti in due anni di bombardamenti a tappeto non ci è riuscito. Trump ha invece capito che l’azione armata doveva essere accompagnata da una vigorosa azione diplomatica tesa a convincere i Paesi sponsor di Hamas a ritirare concretamente il loro appoggio. Ed è stata questa la chiave del successo vista, ad esempio, la fattiva cooperazione del Qatar nella mediazione. Ed è significativo che ieri sera anche l’Iran abbia espresso soddisfazione per l’accordo raggiunto, secondo quanto riferito da Trump: «L’Iran vuole lavorare per la pace», ha detto, e «lavoreremo con l’Iran».

Scopriremo nel tempo la contropartita di questo ampio sostegno diplomatico, ma il fatto è che una soluzione si trova soltanto se ciascuno degli attori vede soddisfatto qualche suo interesse.

I passi necessari per il futuro esigono però leadership diverse nei due campi: una pace vera non sarà mai possibile se non si arriva al riconoscimento reciproco della legittimità di abitare questa terra. È questo il punto chiave prima di poter pensare a qualsiasi assetto istituzionale: avere due Stati che perseguono l’annientamento reciproco non cambierebbe in meglio la storia. Ma proprio questa prospettiva esige un cambiamento di leadership da ambo le parti. Netanyahu, con il suo governo di estremisti, non è più credibile; e ancor meno lo è una formazione terroristica come Hamas, a prescindere da chi la guiderà.

Per quanto si può prevedere ora, almeno sulla carta un cambiamento sarà più facile in Israele, dove le elezioni potrebbero far emergere una guida politica convinta della necessità di un vero accordo di pace e di una convivenza. Molto più complicato il discorso per i palestinesi: se anche Hamas – e con esso la galassia delle altre formazioni terroristiche - venisse cancellato da Gaza, e considerata la pessima considerazione dell’Autorità Nazionale, chi potrebbe rappresentare il popolo palestinese? Un governo internazionale con “tecnici” locali, come quello prefigurato dal Piano Trump, può essere soltanto una soluzione temporanea; e d’altra parte la recente esperienza di Iraq e Afghanistan dimostra che i governi guidati da personalità locali ma imposti dall’estero non hanno speranze di sopravvivere.

Vedremo se questi accordi provocheranno anche quei cambiamenti necessari a rafforzarli e renderli stabili, ora non si perda la consapevolezza che il lavoro per arrivare alla pace è appena iniziato.